domenica 17 agosto 2014

"La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino


In un certo senso ho sempre saputo che prima o poi mi sarei ritrovato a scrivere un post su La Grande Bellezza, un film di Paolo Sorrentino che ha vinto l'Oscar come miglior film straniero e che in Italia è presto diventato un argomento estremamente controverso. Innumerevoli sono i detrattori, in particolar modo tra coloro i quali, ovviamente, si sono accontentati di vederlo su Canale 5 solamente in seguito all'Oscar. La scelta di guardare un film complesso, quasi letterario, in un certo senso anche lento e di difficile comprensione (almeno alla prima visione) su un canale che lo trasmette interrompendolo ogni mezz'ora per far spazio alla pubblicità è, a mio avviso, alquanto opinabile. Per quanto mi riguarda, l'ho guardato diverse volte perché, nonostante alla prima visione ci avessi capito davvero poco o nulla, in seguito sono riuscito ad addentrarmi meglio nel fitto sistema di personaggi e scene che Sorrentino è in grado di dipingere. Ho voluto anche leggere e guardare qualche recensione online e questo non ha fatto altro che suscitare davvero tanta rabbia e tanto imbarazzo in me, dato che la gente a quanto pare ha sviluppato un'avversione piuttosto insensata verso tutto ciò che non è di immediata comprensione. Ho pure trovato il video di un giovane che si definisce "NON critico" e che sostiene, in modo decisamente poco convincente, che l'arte debba essere immediata perché, parafrasando, se vedi un tramonto ti piace a prescindere dal fatto che tu abbia determinate conoscenze. Magari qualcuno, in un futuro, si prenderà la briga di spiegargli che il tramonto non ha nulla a che fare con l'arte né tantomeno con i critici d'arte. Tanto per sfatare il mito, i critici d'arte in genere non sono quei demoni che trovano interessanti quadri o libri di dubbio gusto e che sanno cavar fuori teorie estremamente complesse da un quadro bianco o da un film insensato. Se davvero esistono degli esemplari simili, questi sono l'eccezione e non la regola. Chi davvero si occupa di critica, sia essa letteraria, cinematografica o artistica in genere, lo fa in modo sensato. E ve lo posso assicurare. Ciò che si legge su internet non è critica d'arte, la vera critica è accessibile solo tramite alcuni siti che non sono aperti a tutti, quindi io personalmente trovo il video linkato sopra e in particolar modo chi ha avuto il coraggio di pubblicarlo una persona di una pochezza disarmante. L'arte non è sempre immediata, ciò che si propone come immediato è pura propaganda o pubblicità, che con l'arte ha poco a che fare. La bellezza, che con l'arte ha a che fare in modo trasversale, è tutto un altro discorso ed è un discorso che il film, a mio avviso, affronta in modo esemplare.

Lungi da me essere un critico d'arte e tantomeno cinematografico, l'unico vantaggio che sento di poter vantare su gente simile è quello di aver guardato il film diverse volte e di averlo osservato attentamente. Non posso considerarmi un esperto di cinematografia, ma trovo che anche alcune tecniche utilizzate da Sorrentino e la sua squadra siano degne di lode. Per il resto, mi esimo da qualsivoglia commento tecnico del film. Ciò che mi preme invece esprimere è una serie di considerazioni personali che come tali vanno trattate.

Tanto per ingranare e riportare un altro parere, questa volta più autorevole, ho trovato interessante un'osservazione avanzata dal giornalista Marco Travaglio su La7. Ne riporto qui le parole.
"Altri, politici e giornalisti al seguito, hanno scambiato il film per un inno alla gioia, all'ottimismo, al rinascimento dell'Italia e di Roma. In realtà, il film è bellissimo, ma è un film molto pessimista, che dipinge l'Italia come una splendida necropoli dove le uniche cose belle risalgono a sei, sette secoli fa, opera di artisti morti e sepolti, comunque molto più vivi di quelli che oggi si credono vivi. I protagonisti sono uno scrittore che non scrive, pensatori che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, chirurghi da botulino, cardinali che non sanno nulla di Dio ma tutto di culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano sempre delle brave persone e politici inesistenti nel senso che nel film non esistono proprio. Uno splendido referto medico legale della vuota inutilità in cui è precipitata l'Italia con la sua classe dirigente."
Durante lo stesso intervento, Travaglio riporta infatti diversi pareri di politici che hanno visto il film come un omaggio all'Italia e a Roma, quando, in realtà, La Grande Bellezza si presenta piuttosto come un film di aspra critica sociale. In effetti, il film è anche molto di più di questo ed è per questo che lo apprezzo molto.

Facendo un passo alla volta, il primo grande scoglio da superare in questo film, a mio avviso, è la comprensione della trama e delle varie vicende che si sviluppano e si intrecciano per tutta la durata del film. Le scene e i personaggi potrebbero inizialmente apparire quasi scollegati e lo svolgimento dell'azione potrebbe apparire estremamente lento e pesante. Tuttavia, ritengo che ogni singola scena possa essere apprezzata sia tecnicamente che, per così dire, tematicamente, poiché trovo che l'utilizzo dell'editing molte volte sia eccezionale o perlomeno interessante. Gli esempi che mi vengono in mente sono due. Prima di tutto, quando Lorena, la showgirl ultracinquantenne, dopo una festa a casa di Jep, si tocca il sangue che le sta uscendo dal naso per via dell'(ab)uso di cocaina ed osserva il cielo, lì compaiono diverse scie di aerei che rimandano palesemente alle strisce di cocaina. Un esempio ancora più interessante viene poi offerto da Jep, che osserva il soffitto e ci vede il mare dopo aver saputo della morte del suo primo amore, Elisa, personaggio che ricompare qua e là durante il film nella memoria del protagonista in quanto rappresenta, a modo suo, la 'grande bellezza' della prima esperienza sessuale. Ad attraversare obliquamente quel mare fittizio è una barca in un ricordo ricollegato ai suoi giorni con Elisa. La ragazza, da parte sua, indossa esattamente lo stesso costume che lui ha intravisto in una foto a casa sua poco prima mentre parlava con suo marito, creando un collegamento anche attraverso quello che in termini tecnici si chiama mise en scène. Questo edificio che Sorrentino costruisce per rievocare un ricordo provocato da una foto è estremamente interessante e l'effetto viene raggiunto in modo estremamente abile. Ovviamente, tutto ciò potrebbe sfuggire a chi guarda il film per la prima volta, proprio come in molte altre scene del film. È per questo motivo che ritengo che La Grande Bellezza sia un film da degustare, da riguardare e soprattutto da osservare attentamente, perché pullula di rimandi impliciti e non.

Ciò che appare come tema dominante del film è la critica ad una Roma che affatica chiunque ci abiti, con il suo caos, le sue feste insensate e prive di limiti morali. Ad abitarla, come fa notare Travaglio nel commento sopra riportato, sono persone dalla dubbia moralità, quasi degli inetti, personaggi incapaci di abbandonare l'imbarazzante mondanità che li circonda e anzi pronti a lasciarsi travolgere da feste stravaganti, quasi surreali. Sorrentino, insomma, propone l'immagine di una Roma, e, per estensione, di un'Italia, che vive sulla gloria del passato, sulle grandi opere d'arte e i monumenti mozzafiato che già dall'inizio del film provocano una forte sindrome di Stendhal in un turista giapponese, che pare morire sul colpo. Questa sindrome pare essere la sindrome del film nella sua interezza, poiché, in fin dei conti, come il titolo stesso suggerisce, tutto ruota intorno alla Grande Bellezza non solo di Roma, ma della vita in genere. Si tratta di quella bellezza che travolge Jep nel ricordare la sua prima esperienza sessuale, tant'è che inizialmente, quando Ramona gli chiede di raccontarle la sua prima volta, lui non riesce ad articolare ciò che Elisa gli aveva detto al faro quella notte e si interrompe, gettando la sua interlocutrice nell'imbarazzo e spingendola a voler tornare a casa. Si tratta di quell'emozione intensa che travolge Jep Gambardella e tutti coloro che, come lui, sono "destinati alla sensibilità". Questa Grande Bellezza, rappresentata, nel concreto, dalla grande bellezza di Roma come città — e non come gente —, è in netto contrasto con la vita scevra di qualsivoglia morale nella quale tutti i personaggi precipitano tristemente in diverse parti del film, quella delle feste sregolate, dell'abuso di cocaina e della musica che buca i timpani. Questo contrasto emerge in particolar modo, ovviamente, nel protagonista stesso. Jep, infatti, ha scritto un grande romanzo, ma, come ripete più volte, è stato poi travolto dalla mondanità di Roma e non ha più avuto occasione di scrivere altro. Il suo lato sociale e festaiolo ha soffocato l'ispirazione artistica che lui ricerca per tutto il film. Questo contrasto, a mio avviso, diviene palese in occasione del funerale del figlio di una sua amica. Nella scena precedente, infatti, è Jep stesso a narrare al pubblico quali siano le convenzioni ai funerali visti come eventi prettamente mondani e sociali: avvicinarsi ai parenti, stringere loro le mani, toccare loro il braccio, sussurrare parole confortanti, poi allontanarsi, trovare un posto isolato ma al contempo ben visibile a tutti e contrarsi in espressioni sofferenti, ma mai piangere per non oscurare il dolore dei parenti del defunto. Nella scena del funerale, egli esegue alla perfezione questi comandi, ma, una volta riseduto, il parroco invita gli amici del defunto a trasportare la bara verso l'esterno e Jep, insieme ad altri tre suoi amici, si trova ad essere uno dei portantini. Nel momento in cui trasporta la bara, il protagonista cede però al pianto e va pertanto contro alle stesse regole che aveva esposto nella scena precedente e che aveva saputo eseguire alla perfezione fino a quel momento. Jep Gambardella, insomma, si conferma essere quello stesso ragazzo che alla domanda "Cosa ti piace di più, davvero, nella vita?" rispose "L'odore delle case dei vecchi" mentre tutti i suoi coetanei risposero "La fessa"; egli è destinato alla sensibilità e questo suo lato, per quanto sia celato sotto a quintali di marcia mondanità, non fatica a riaffiorare in determinate occasioni. Il protagonista, pertanto, è lacerato da questi due lati della sua personalità: da una parte, la facile vita mondana che lo travolge in continuazione e soffoca qualsivoglia tentativo di scrivere un altro romanzo; dall'altra, la sua inestinguibile capacità di meravigliarsi di tutto ciò che lo circonda, di avere dei moments of being, di dar voce a quel fanciullino pascoliano che è in lui. Questa sua duplicità rimane palese per tutto il film ed è, in ultima analisi, una delle tematiche principali della pellicola. Infatti, il film stesso ci invita a cogliere questi "sparuti, incostanti sprazzi di bellezza" a cui assistiamo qua e là durante la nostra misera esistenza e, in un certo senso, il film stesso potrebbe essere visto come il romanzo che Gep, alla fine del film, potrebbe scrivere. Insomma La Grande Bellezza è il risultato stesso delle vicende del protagonista, che riscopre la sua sensibilità, che la sente zampillare dentro di sé e che non può più resistere alla voce che, dentro di lui, lo invita a scrivere di queste esperienze. Il film/romanzo La Grande Bellezza è il prodotto della mente del protagonista che viene travolto, qua e là, dalla grande bellezza della vita. A supportare questa tesi è anche la forte presenza di un qualcosa di vagamente letterario, che fa pensare, a me personalmente, ad un romanzo piuttosto che ad un film. Checché se ne dica, La Grande Bellezza è uno di quei film che, in un certo senso, provengono da un romanzo, da una vicenda romanzata. Basti pensare, in questo senso, al monologo finale, che qui riporto.
"Finisce sempre così, con la morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla bla bla bla. Altrove c'è l'altrove. Io non mi occupo dell'altrove, dunque che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco."
In altre parole, la frase centrale, evidenziata in grassetto, riassumerebbe il senso del film intero. La vita, così propone Sorrentino, è un continuo oscillare tra momenti di assoluta bellezza da una parte e la mediocrità, lo squallore, l'uomo miserabile ed inetto dall'altra. Questa dualità viene messa in evidenza sin dai primissimi minuti del film, dove veniamo introdotti in una Roma deserta, silenziosa, una Roma che risplende in tutta la sua bellezza e la cui aria risuona di cori quasi angelici. In un momento successivo, tuttavia, questa atmosfera carica di emozioni viene squarciata dall'urlo quasi inumano di una donna che si trova alla festa di compleanno di Jep, il che ci introduce al secondo momento, quello dello "squallore disgraziato" e de "l'uomo miserabile". La sfida prettamente umana, aggiungo io, è saper cogliere questi momenti di meraviglia, dare loro spazio, saperli apprezzare in toto. Allo stesso tempo, però, questa visione è quella di una persona "destinata alla sensibilità", una persona ricettiva, che sa osservare la bellezza della vita ed apprezzarla; si tratta pertanto di un modo di vivere che non può appartenere a tutti. In altre parole, è uno dei tanti filtri attraverso i quali la vita può essere osservata e colta.

Questo viene confermato nel film proprio da coloro i quali questo ambiguo comportamento della vita non riescono proprio a percepirlo. Tralasciando personaggi secondari dove si palesa chiaramente questa incapacità di cogliere la cosiddetta Grande Bellezza, come quel giovane che sostiene, in risposta ad una modella cocainomane che ora si improvvisa intellettuale, che il suo scrittore preferito sia Marcel Proust, ma anche Ammaniti, o come la modella stessa, che sostiene di starsi dedicando ad un romanzo in qualche modo proustiano, o ancora come l'amica di Jep che sostiene che l'unica scena jazz interessante al momento sia quella etiope. Si tratta, in questi come in tanti altri casi, di personaggi che cercano disperatamente di elevarsi a rango di individui interessanti, in qualche modo si aprono all'arte, desiderano, non senza affettazione, che gli altri riconoscano che il loro interesse per l'arte sia genuino e ricercato, che abbiano gusti raffinati, che sappiano apprezzare anche autori ed artisti di nicchia. Insomma la loro ricerca diventa unicamente un modo per ottenere quel riconoscimento che, all'interno di quella mondanità logora ed usurata, può permettere loro di mantenere un po' di amor di sé proprio attraverso l'amore degli altri. È proprio all'interno di questo contesto che nascono quei finti critici d'arte che il ragazzo del video condanna, ma dobbiamo sempre ricordare che nessuno di loro è veramente un critico d'arte né potrebbe mai esserlo proprio in vista di questo tentativo disperato, quasi ossessivo, di ostentare una certa raffinatezza. Ed è il film stesso a smontare questi personaggi nel momento stesso in cui ce li presenta, poiché lo spettatore rimane indispettito e riesce automaticamente a trarre le sue conclusioni riguardo a questi personaggi da condannare. Ogni inetto viene smantellato nel momento stesso in cui viene presentato come tale, proprio come quella presunta artista che Jep è costretto ad intervistare all'inizio del film o come la sua amica Stefania, la quale sostiene di "grondare di vocazione civile". Ognuno di questi personaggi vive nelle sue illusioni, nelle sue menzogne, in quei mondi paralleli pieni di ego e di sicurezza che permettono loro di trascinarsi lentamente verso la fine della loro miserabile vita.

Un personaggio che ho trovato in qualche modo interessante, pur appartenendo, in un certo senso, a questo universo di inetti, è Ramona. Jep inizia a conoscerla dopo il suo spogliarello all'interno del locale di un suo amico. Si tratta di una donna adulta, se non di mezza età, che si ostina a mostrare il suo corpo per lavorare, come mette in evidenza fin da subito suo padre. Tutti i soldi che guadagna, e questo lo scopriremo alla fine della sua vita, dice di spenderli per "curarsi". L'ambiguità è palese ed è un'ambiguità che io personalmente ho trovato affascinante. Ramona si cura da una malattia o si rende bella per poter continuare a praticare la sua professione di spogliarellista? Davanti a questo interrogativo, lo spettatore si ritrova quasi spiazzato, ma viene subito indotto a pensare che la prima sia l'ipotesi più probabile, perché Ramona esce dalla scena in modo pacato e poco discusso. Tutto ciò che ci comunica la sua morte sono delle parole che appartengono ad uno sconosciuto e che vengono indirizzate al padre della donna mentre lo vediamo fumare sofferente e quasi disperato. La scena appena precedente, invece, vedeva Jep scendere in un bar a prendere qualcosa, la velocità è rallentata e le parole di una signora contribuiscono ad anticipare l'atmosfera di perdita ed abbandono che dominerà le scene successive.

Un altro personaggio interessante è poi quello interpretato da Carlo Verdone, Romano. Egli, infatti, è scrittore, mira a scrivere qualcosa di interessante e per tutto il film lo vediamo tentare disperatamente di ottenere il riconoscimento della modella cocainomane sopraccitata. Romano vive in un appartamento per studenti e uno dei momenti di Grande Bellezza proposti dal film avviene proprio all'interno del suo appartamento, dove due studenti universitari si baciano intensamente da giorni. Questa bellezza, tuttavia, non viene del tutto colta da Romano, il quale continua ad esercitarsi in freddi esercizi letterari quali scrivere una trasposizione teatrale di opere di D'Annunzio. Jep, infatti, gli consiglia caldamente di scrivere qualcosa di suo pugno, piuttosto di tentare di reinterpretare opere altrui. Questo invito viene accolto da Romano, il quale, in una delle ultime scene che lo vedono come personaggio, dà vita ad una performance teatrale interessante ed apprezzata, ovviamente da tutti tranne che dalla modella che lui insegue per tutto il film. Anche in lui, pertanto, può essere intravisto quell'inetto che non si rende conto esattamente di ciò che succede ed insegue vanamente obiettivi superficiali ed erronei, ma la differenza, qui, è sostanziale: Romano, infatti, se ne va, abbandona la grande duplicità di Roma per ritornare alle origini. Ciò che ha scritto ha saputo dargli una spinta, gli ha permesso di uscire da quella vita miserabile per darsi ad altro, a "l'altrove", come lo chiama Jep nel monologo finale.

Un ultimo degli innumerevoli spunti che il film propone è poi quello del cosiddetto "trucco". Si tratta di uno dei Leitmotive della pellicola, a mio avviso, in quanto dà voce, in un certo senso, all'aspetto realistico della scrittura e del raccontare in genere. Tutto ciò che io ho chiamato "vicenda romanzata", ossia la trama del film e il continuo rimando agli aspetti essenziali che lo compongono, vengono definiti "solo un trucco" nel monologo finale. Il raccontare si fa carico del nulla, di storie inventate ed inspiegabili, non per nulla viene citata più volte la famosa frase di Flaubert secondo cui la massima aspirazione di uno scrittore sia lo scrivere del nulla. Proprio come la giraffa che appare e scompare nel film, noi, come spettatori, ci troviamo davanti ad un semplice trucco, ad una magia, a qualcosa di razionalmente insondabile che però è in grado di comunicarci qualcosa, di stupirci e di meravigliarci. Allo stesso modo, la Grande Bellezza, l'ispirazione, la musa dello scrittore c'è e non c'è, appare e scompare, in un momento ci coinvolge e ci abbraccia e nel momento immediatamente successivo ci abbandona alla nostra misera e vacua esistenza umana. La vita, lo scrivere, il narrare, tutti questi sono dei trucchi, qualcosa di inspiegabile, di insondabile, di inenarrabile. Il film La Grande Bellezza, però, sa ripercorrere il filo che, dal romanzo terminato, ci riconduce all'ispirazione che l'ha partorito, Sorrentino sa guidarci sapientemente verso il significato e la razionalità che noi cerchiamo ostinatamente per tutto il film. La grandezza di questo film, quindi, risiede proprio in questo, secondo la mia modestissima opinione. E, proprio come è stato dimostrato da noi italiani, non è un film per tutti.

Questo, a mio avviso, è ciò di cui tratta il film, o meglio, come io ho interpretato ciò che il film propone. Mi son dovuto limitare ad esporre pochi concetti fondamentali poiché si tratta di un film estremamente denso ed interessante. Sono più che aperto a critiche ed osservazioni riguardo alle argomentazioni che ho cercato di presentare in modo logico e coerente e non intendo assolutamente avanzare la tesi che la mia chiave di lettura sia l'unica possibile. In fondo, il bello dell'arte in genere non è tanto la sua immediatezza, come sostengono alcuni, quanto piuttosto la possibilità di essere interpretata in modalità sempre differenti e, in alcuni casi, anche contrastanti. Sta a noi, come pubblico, lettori ed osservatori, cercare di cogliere le sfumature e gli indizi che l'autore ci fornisce per arrivare ad una comprensione almeno parziale dell'opera d'arte. Tutti coloro i quali si ritengono abbastanza abili da elevarsi al di sopra di determinati capolavori, a mio avviso, dovrebbero praticare un po' di umiltà, che male non fa, e almeno intravedere in lontananza la possibilità che esistano diversi gradi e livelli di comprensione e che non tutti siano accessibili a tutti. Se non si capisce un film alla prima visione, è cosa buona e giusta riguardarlo ed osservarlo, invece di sparare a zero e disdegnarlo come qualcosa di intellettualistico e vuoto. Citando nuovamente Travaglio,
"[...] La Grande Bellezza ha vinto l'Oscar come migliore film straniero, ma non straniero in America, straniero in Italia. Infatti, lo hanno capito in tutto il mondo tranne che qua. Qua ci siamo fermati al titolo."