Pubblico qui il terzo monologo, sulla scia de Il fabbro e Alba, nella speranza che possa risultare interessante a qualcuno. Come sempre rimango aperto a critiche e pareri diversi dal mio.
Disteso
in un prato osservo il percorso delle nuvole, le loro traiettorie inenarrabili,
le guardo fare il loro inarrestabile corso. Il vento le sospinge un po’ più in
là, gradualmente, pian piano, sempre più lontane. Le vedo trasformarsi
lentamente, modellate da una forza che non sanno descrivere. Vengono separate,
lacerate, levigate, gonfiate, smontate. Provo a contarle, una, due, tre,
quattro... Sento di dovermi fermare qui. Sono molte di più di quante la mente
non possa abbracciarne. Si susseguono senza tregua, occupano spazi
indescrivibili, insondabili. Sembrano spumose, rigonfie, ma ho l’impressione
che siano impalpabili al tatto. Che stranezza. Penso di conoscerle, credo di
essermi impossessato del loro segreto, della loro natura, delle loro qualità
intrinseche, ma non ho mai avuto modo di accarezzarle, di toccarle, di domarle.
Non ne ho mai sentito l’odore, mai ne sentirò il sapore. Non so se si possano
respirare, digerire, calpestare. Eppure le posso osservare e tramite questo
unico senso credo di averle comprese, di averle rese parte della mia conoscenza
del mondo. Sento di poterle adorare, di poterle amare come un’amante la notte
del giovedì quando tua moglie è fuori casa: segretamente, intensamente, immersi
in un mondo dove vigono altre regole, dove esistono solo due entità, tu e lei.
La vergogna è qualcosa che nasce solo il giorno dopo, al risveglio, pian piano
si inserisce nella tua giornata, inizia a punzecchiarti mentre giaci nudo nel
letto, prima le dita dei piedi, poi le cosce, l’addome, il petto, il viso; a
colazione è seduta con te al tavolo, senti il suo sguardo pesare su di te, ma
non trovi il coraggio di ricambiare quello sguardo intenso, quell’implicito
tono declamatorio che si rifà a grandi ideali di perfezione, di amore vero, di
sentimenti genuini che tu non hai mai saputo cogliere, o che forse la vita non
ti ha mai regalato; a pranzo, lei torna, la vergogna si stampa sulle sue labbra
quando la baci e la accogli in casa prima di tornare a lavoro; come un alone,
ti accompagna fino a cena, un alone scuro, violaceo, funereo; la sera rincasi,
obnubilato da una presenza che non è di questo mondo, ti cambi, ti fai una
doccia, sperando di levartela di dosso; la vedi scendere giù per lo scarico,
pensi di essertene liberato, ma era solo sporcizia.
Il sole
torna a splendere, si riflette sul mio viso confuso, contratto in mille
pensieri infelici. Ricordi di una notte altrettanto miserabile. La passione di
qualche manciata di minuti, la voluttà ti attanaglia, e tu la espelli in un
pezzo di lattice. Scatenarsi, ansimare, riposare esausti l’uno accanto
all’altra. Imprimere il proprio sudore, il proprio odore nelle lenzuola: questo
sarà ciò che ne rimarrà l’indomani, una presenza nebulosa, vaga, che porta alla
mente ricordi confusi, ingarbugliati, impossibili da rievocare nel dettaglio.
Ricordi i suoi movimenti sopra di te, la ciocca di capelli che le hai spostato
dal viso, le sue mani sul tuo petto, poco altro. Ad accompagnarti fuori dalla
porta è la vergogna del tradimento, della tua gretta esistenza spoglia di vesti
illibate, candide, profumate. Tutto ciò che rimane è l’odore di un processo
innaturale, artificioso, forzato, privo di senso. Ti rifugi nel tutto, nelle
nuvole che accarezzano dolcemente il cielo mentre si dirigono verso mete che
non potrai mai ammirare. Loro fugaci, leggere, eleganti; tu ancorato a questa
esistenza terrena, a questo suolo bagnato di lacrime, macchiato di sangue,
calpestato da milioni di fantasmi che, come te, girovagano immersi nei loro
eterni, insensati scopi.
E se
queste nuvole fossero destinate a rimanere? Se il loro moto fosse apparente, se
il sole non riuscisse mai più a penetrare questa coltre grigia e melancolica? O
se ci riuscisse solamente sporadicamente, come se un qualcuno, un qualcosa di
più grande volesse graziarmi, così, per tenermi vivo e vegeto? Se questo cielo
nuvoloso, grigio, fosse la regola e non l’eccezione? Se i pensieri e i ricordi
fossero destinati a bussare alla porta costantemente, vigili, imperituri,
attendendo la mia più piccola debolezza? Se io fossi in un rifugio in montagna
da solo, attendendo qualcuno, ma alla porta si presentasse solo un lupo
solitario? Se questo iniziasse a graffiare la porta, a ululare, a digrignare i
denti quando osassi scaricare il mio sguardo spaventato su di lui? Se quel
qualcuno non arrivasse mai e io fossi destinato a rimanere bloccato in quella
casa, isolato dal mondo da una bestia feroce pronta a divorarmi non appena io
decidessi di cedere al suo canto intossicante? Ci sarebbe indubbiamente un
certo piacere in tutto ciò. Quella sorta di voluttà provocata dal bel canto
delle sirene, che ti ammaliano e ti invitano all’autodistruzione. Forse è
questo l’unico piacere che saprei concedermi, quello del dolore, dell’atrocità,
dell’annientamento. Niente amore, niente sesso, nessun legame che sappia dare
una svolta alla mia esistenza. Nessun porto sicuro. Sono al contempo la
tempesta e il capitano della nave destinata a smantellarsi sugli scogli. Che le
sirene cantino o meno poco importa. Non ho una rotta, nessuno strumento di
navigazione mi sa davvero aiutare a trovare la strada, nessun tipo di presenza
umana o divina mi assiste. Ci siamo solo io e questa tempesta che sono i miei
pensieri, che si susseguono l’un l’altro senza posa, proprio come queste
candide nuvole che soffocano il sole e la sua luce. Scorrono una dopo l’altra,
senza sosta, tanto leggiadre quanto letali. Si tratta solo di una parvenza di
movimento, di fatto non fanno altro che perpetuare il soffocamento del sole.
Qualche volta ricompare, prende fiato esausto, quasi esanime, per poi tornare
nell’ombra a cui appartiene.
Io sono
il sole destinato a non spegnersi mai, soffocato dall’eterno susseguirsi di nuvole
dalla sostanza impalpabile. Questa è la mia condizione, questa la mia condanna.
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