domenica 31 maggio 2015

Alba


Seguendo le orme di un mio pezzo precedente intitolato Il fabbro, ho deciso di cimentarmi nella scrittura di monologhi interiori brevi e sostanzialmente monotematici per affrontare alcuni temi che mi stanno cari. Questo è il secondo pezzo che risulta da questo tentativo. Come sempre rimango aperto a pareri diversi dal mio, sentitevi liberi di commentare pubblicamente o in privato.



La pioggia batte contro al vetro di questo luogo asettico e immacolato, eppure così macchiato di piccole tragedie quotidiane da emanare un odore nauseabondo di lacrime e dolore. Osservo il mondo fuori, attraverso la finestra, proprio come la protagonista di una tragedia domestica che sogni di essere altrove, immersa nell’esoticità di posti che mai furono e mai saranno. Intravedo le prime luci del giorno avvicinarsi, all’orizzonte il sole ancora si fa attendere, ma la natura ha già organizzato un comitato d’accoglienza degno di nota. Il canto del mattino non tarda ad inserirsi lentamente nel cambiamento che la natura subisce da notte a giorno, da oscurità a luce, da silenzio a rumore. Le mie dita, intrecciate in un fazzoletto, mostrano i primi segni di una stanchezza che vorrei non mi appartenesse. Tremano, fanno dei periodici scatti repentini che mi riportano costantemente alle lacrime e alla sofferenza di questa realtà. Mi volto verso il letto dove giace l’uomo che amai per tutta la vita. Lo vedo inerte, impassibile; lo vedo vegetare in uno stato che ancora non riesco ad accettare. Deglutisco, abbasso lo sguardo. Stringo il fazzoletto, ne noto nuovamente il tessuto pregiato, quella stessa seta che negli anni ha accolto la mia sofferenza, che mi ha cullata e mi ha fatta scivolare fuori dai momenti più bui. Qui ritrovo le mie lacrime, le parti più sofferenti del mio corpo, il sudore di un parto, il sangue che ho strofinato via dalle ferite dell’infanzia di nostro figlio. Ripercorro i passi che mi hanno portata in questa stanza d’ospedale e mi chiedo cosa la vita volesse davvero da me. Mi chiedo se ogni piccolo movimento, ogni parte, ogni minimo gesto fosse necessario ed inevitabile. Arrancare, spostarsi, ritornare sui propri passi, camminare secondo traiettorie prestabilite, descrivere un cerchio con il proprio andazzo claudicante. Che razza di percorso è la vita. Scuoto la testa, le mie labbra si raggrinziscono in un sorriso sofferente, sento il dolore affluire agli angoli dei miei occhi. Osservo le mie mani consunte, accarezzo il mio fazzoletto color panna, poi ritrovo la forza per guardare nuovamente quel corpo freddo come roccia che langue infermo in uno scomodo letto d’ospedale. Tutto questo volge al termine. Non si tratta più di osservare l’uomo che ho amato per un’umana eternità, no, questo ormai si riduce ad essere un macabro spettacolo della natura. E io sono costretta ad assistervi come spettatrice impassibile, non batto ciglio di fronte a tanta crudeltà, mi rifugio anzi nelle sofferenze del mio passato, cerco di visualizzare un futuro ottenebrato da questo evento assassino. Rabbia, sofferenza, incapacità di affrontare questo strazio. È questa la mia tragedia? Quella che porterò a malincuore per il resto della mia esistenza, quella grande croce rossa, quel bracciale funereo che cingerà il mio braccio per sempre? È questo l’inevitabile destino verso cui sto correndo?
Mi lascio distrarre dal più piccolo rumore, la mia inesausta speranza mi tiene attenta, vigile, in attesa del più piccolo segnale. A volte è un respiro più affannato, altre volte si tratta di un movimento quasi impercettibile delle dita. In ogni caso, nulla si muove, tutto è fuori dal tempo, stanotte. Tutto tranne questa crudele natura che ci spia dalla finestra, che sgomita ricordandoci che c’è sempre qualcosa di più grande che si muove anche se noi siamo ancorati in un deserto atemporale. Quanta ironia c’è nel mondo, nell’inesorabile correre del tempo, nell’eterno ripetersi delle stagioni, nella nostra perpetua lotta per trascinare dietro di noi cose che non ci possono più appartenere. Ci opponiamo alla natura, cerchiamo di divincolarcene, di strapparle qualcosa che ha saputo smuovere in noi un sentimento, un affetto, una passione. In un primo momento ci riusciamo, i nostri avidi artigli infossati nella carne così fresca, sanguinea, del colore del migliore dei tramonti. Presto o tardi, ci accorgeremo che siamo aggrappati ad un pezzo di carne imputridita, dall’odore nauseabondo, troveremo dei vermi ad ogni morso, introdurremo del veleno nel nostro organismo, lo masticheremo in parte soddisfatti, in parte avviliti, lo assimileremo, impareremo a digerirlo, a volte persino ad apprezzarlo. E poi sarà troppo tardi, ci rassegneremo. Guarderemo il nostro riflesso nello specchio abbattuti, vedremo un viso emaciato, logoro, incapace di subire il lento protrarsi della nostra sofferenza. Vorremo piangere, esternare il nostro dolore, ciò che ci lacera l’anima, ma ci accorgeremo, finalmente, che ad ogni alba ci siamo riscoperti non più forti, ma più adatti al nostro ruolo di maschere di sofferenza; ogni giorno, abbiamo migliorato la nostra capacità, abbiamo levigato i nostri spigoli per riuscire a stare in un cerchio perfetto, per riuscire a fare ciò che abbiamo trascinato con noi negli ultimi anni. Cosa siamo diventati? Intossicati dalle nostre faccende quotidiane, dimentichi del mondo, dello schema più grande nel quale siamo inseriti, puramente interessati al nostro gretto egoismo, alle nostre cose, ai nostri affetti, alle estensioni della nostra personalità, abbiamo proseguito nella nostra futile lotta contro un destino più grande di noi. Ci siamo creduti superiori al mondo, alla morte, persino alla vita. Abbiamo ricreato vita, l’abbiamo introdotta nella nostra misera esistenza quotidiana, ci siamo ostinati a portarci appresso tutto ciò che ci era caro. Non abbiamo mai imparato a dire addio, non ci siamo mai abituati al commiato. Ma il conto arriva sempre. Io sono qua a pagarlo, davanti alla beffa che il mondo si fa di me e della mia minuscola presenza, della mia lacrimosa tragedia da quattro soldi. In un attimo, la macchina si spegne, mio marito con lei. L’ospedale si ottenebra davanti ad un’alba che non è mai stata più lucente, un sole scintillante compare all’orizzonte, forte, ruggente, impavido. Nell’umanità impazza il caos.
Non trovo nemmeno la forza di alzarmi da questa sedia. Le lacrime si annidano agli angoli dei miei occhi lucidi, la mia faccia si comprime in una smorfia sofferente, ma pacata, quasi serena. Sento la mia nuora chiamarmi, da fuori: “Alba!”.
Già, proprio così. Quanta ironia.
Quanta ironia.

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