sabato 29 ottobre 2016

Aspera

Ecco qua un altro monologo sulle orme de 'Il fabbro', 'Alba', 'Nuvole', 'Risveglio' e 'Los'. Come sempre, sarò più che contento di leggere qualsiasi tipo di feedback in privato o in un commento su qualsiasi piattaforma.


Quanti uomini si sono ritrovati sotto la volta stellata a riflettere, a passeggiare, a scaldarsi attorno ad un fuoco attendendo che la notte passasse. Quante storie ha conosciuto quell’entità che ci osserva da lassù, quanti abbozzi, quante cancellature, quanti equilibri precari ha scrutato attraverso questa immensa distanza.
Questo bosco rumoreggiante mi circonda; in lontananza, il quieto scrosciare di un fiume accompagna il canto della notte. In alto, appesa, sta la luna, con la sua luce fioca di giorno e brillante nelle ore più buie. Tutte intorno a lei delle stelle, distanti, rimangono conficcate in questo manto di un blu oscuro, opaco, inscrutabile. Le loro luci paiono ora disegnare un volto femminile riflesso in una finestra, ora una carrozza in fuga attraverso la città, ora ancora una stazione affollata.
Il primo, crucciato, osserva l’orizzonte inarrestabile distendersi davanti al suo sguardo. La giovinezza è ancora florida in questa acerba ragazzina che indossa abiti da donna. Il suo matrimonio è caduto in rovina e si ritrova a fare i conti con spettri domestici che non sa come approcciare. Pensa alla sua svanita progenie, che non la riconosce, che è stata addestrata a non mostrarle più l’affetto di un tempo. Là fuori, gli sguardi si voltano su di lei per poi cercare altri soggetti d’interesse nel momento in cui lei avvicini un dialogo. La sua vita in società si è rivelata breve, pertanto torna in quell’eterno rifugio, l’infanzia, così ben condensato in quell’altalena ormai logora che scricchiola in giardino. Non è più tempo di svaghi bambineschi. La commozione, talvolta in un’eruzione disperata, talaltra sofferta in solitudine, le riga il volto.
Una carrozza, nel frattempo, fugge in tutta fretta tra le strade della provincia. La passione la irradia, l’ansimare di due corpi vestiti in abiti socialmente opportuni gonfia l’ossigeno di segreti che fanno tremare le labbra di qualsiasi donna. La mente di lei è popolata da personaggi fittizi, da prìncipi stranieri che la portano in reami dipinti coi colori dell’immaginazione. Le sue labbra rilasciano già l’odore di inchiostro che diventerà la manifestazione della sua condanna. In questa carrozza, in questo momento del giorno, in questo preciso hic et nunc si trova lei mentre maneggia le redini di un atto che finirà nel solito modo, e mai in quello sperato. La sua mente prospera nell’anticipazione del futuro, ma arranca in quel tumultuoso torrente tra presente e passato. A casa, un marito ingenuo la attende; una figlia poco amata cerca l’affetto materno in sogni tanto distanti dalla realtà; la madre, intanto, si aggiusta il vestito, amareggiata dall’eterno riaffiorare di desideri di appartenenza ad un altrove fittizio.
In stazione, la folla, incredula, si avvicina a dei binari bagnati da sangue adultero. Le parole si perdono in un tumulto di rumori indistinti. Gli sguardi stentano a raccogliere ciò che rimane di una donna che ha strofinato la purezza del matrimonio con un panno mal ridotto. I gesti, giudici che hanno scritto la condanna su una fronte ormai inesistente, perdono ogni significato davanti all’atrocità della morte spontanea. Lembi di pelle avvizziti dall’eccessiva violacea preoccupazione ricoprono dei freddi, inermi binari, inadeguati ad ospitare nel loro grembo la sacralità di una vita socialmente mal spesa. Congetture riempiono il silenzio generato da un atto estremo che la società stenta ad osservare. Il vociare continua, stavolta al centro del palco, mentre in lontanza rimane, offuscata, la presenza di una donna consumata dalla gelosia e da un amore sanguinante.
Tre donne, tre destini, tre stelle impareggiate in questa volta lucente. Loro là sopra, io qua, sola, mentre contemplo le loro storie ben conosciute. Le braci ardono, ma ancora per poco. Questo maestoso albero riflette la luce calda davanti a me, mentre lassù il grande gelido blu paralizza l’aria. La mia mente rimane sospesa a mezz’aria, non si risolve di raggiungere quegli astri così distanti, ma si rifiuta di restare ancorata a questa terrena esistenza. Così resto a contemplare vite altrui, fittizie, appartenenti ad un passato che non è mai stato, senza poterle raggiungere. Poco importa, in fondo, se rimango tra narrato e vissuto, tra immaginazione e realtà. Questa selva oscura mi ricorda immancabilmente l’asprezza del vivere; attraverso questa mi proietto nella contemplazione di vicissitudini che non potrebbero in alcun modo appartenermi, se non in quanto narrate. Così mi preparo ad un nuovo vivere, ad un nuovo narrare a me stessa ciò che accade. I protagonisti sono del tutto indifferenti: Effi, Emma, Anna, Crampas, Léon, Vronskij. Mio marito, che dorme nella tenda, ignaro della mia assenza. I miei figli, abbracciati dal soporifero manto della notte in quel posto che chiamano casa. L’amante, abbandonato nel bosco del peccato, nel buio dell’adulterio. La traditrice, l’adultera, che contempla storie parallele e si crogiola in sentimenti tanto simili quanto distanti.
Una folata di vento gelido mi soffia sulla schiena, l’oscurità mi arpiona le interiora, del caldo sangue scuro mi ricopre come velluto rosso. Le mie mani si avvicinano alle braci ardenti per trarne energia e calore, il mio corpo si raccoglie in una sfera di carne per ripararsi da questa asprezza che mi circonda. Un singhiozzo irrompe nel silenzioso canto notturno, mentre piccole, pallide perle scavano il mio viso. L’opacità del mio volto diventa trasparenza, le mie colpe si districano dalle mie scapole e mi aleggiano ora intorno come personaggi di romanzi ottocenteschi. Le braci vengono calpestate, oppresse, soffocate. Le mie mani si ritirano spaventate, mi coprono il viso con un velo di carne infreddolita, mentre davanti a me le ombre delle mie azioni improvvisano un’esibizione grottesca.
Una mano ossuta, scheggiata di artigli affilati, allunga la sua ombra sulla mia nuda nuca. Percepisco il freddo della sua vicinanza, anticipo il leggero graffio delle sue unghie sulla mia debole pelle, rabbrividisco al sol pensiero della violenza che potrei subire. Il mio cranio, attanagliato da una forza razionalmente inconcepibile, si solleva repentinamente: nel mio campo visivo si dipana l’indifferenza in molteplici forme. Il bosco, stoico spettatore del mio peccato, rimane quieto, opaco, oscuro. La portatrice di consigli mi avvolge in una consapevolezza nuova, finora solamente osservata tra gli astri: “L’adultère, c’est moi”.

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