Ho deciso di dedicarmi ad uno dei miti che mi sono più cari, quello di Sisifo,
condannato da Zeus a rotolare eternamente su per un monte un masso senza mai
riuscirci e dovendo quindi ogni volta ritentare pur conoscendo il proprio
destino. Ecco quindi un monologo sulla scia de 'Il fabbro', 'Alba', e 'Nuvole'.
Franz von Stuck, 'Sisifo' (1920) |
Per
tutta l’eternità spingo questo greve masso su per una salita che non si
mitigherà mai. Una salita che mi guarderà indispettita ad ogni mio tentativo,
che si farà beffa di me e del mio eterno movimento costante quanto futile. I
muscoli si sforzano, si coordinano, cooperano affinché io possa nuovamente
fallire. Ad ogni tentativo si fanno più forti, le dita dei piedi si stortano sempre
più, si adattano in continuazione a ciò che viene loro richiesto, si piegano
all’arbitrarietà di circostanze assurde. Le mie mani si fanno dure, callose,
robuste; si appropriano della forma di questo masso, lo sfiorano, rivolgono la
loro rinnovata energia verso un oggetto che è ormai diventato parte di loro.
Lontani sono i giorni in cui esse, pavide, si avvicinavano a questo freddo
pezzo di pietra per la prima volta. Lontana è la paura di non conoscerlo, di
esplorare l’ignoto, l’alieno; altrettanto lontano è il timore di non potersi
confrontare con esso. La vicinanza non mi atterrisce. Ho levigato questo masso
ogni minuto della mia vita, l’ho fatto mio, mi sono appropriato delle sue
fattezze, le ho in parte adattate a me. Questo masso è lo specchio del mio
destino assurdo, dell’eterno ritorno di quelle stesse azioni futili, di quegli
sforzi sovrumani, di quegli spazi soffocanti. Traggo calore da questo pezzo di
pietra, mi impossesso dell’energia che posso derivarne. La mia esistenza è
diventata una simbiosi con l’altro. Io lo levigo, lo rendo umano. Esso mi
prepara ad un nuovo fallimento, ad un nuovo ripetersi.
In
fondo, questo è il mio posto. Nella terra ai miei piedi vedo la concretizzazione
delle mie erculee fatiche, conseguenze e al contempo cause della mia
fallimentare impresa. Impronte diverse ma in fondo fin troppo simili, dominate
da un caos che sa riproporsi anche nello scontare eternamente la stessa pena.
Il sudore gronda dalla mia fronte e bagna il mio corpo come sangue che
fuoriesce lento e costante da una ferita di color carminio. Sangue che
abbandona il mio corpo a contatto con l’aspra concretezza di questa pietra e
questa terra, che contribuisce a lubrificare questo eterno dolore, questa
inscontabile condanna. Sì, questo è il mio posto, davanti a questa fredda
terra, dietro a questo enorme masso che si fa beffa della mia forza fin troppo
umana. Io sono la lotta stessa, la lotta contro un destino più grande di me, un
destino che grava sulle mie spalle senza che io abbia la possibilità di
scrollarmelo di dosso. Soffro, mi ribello, spingo con più forza, fallisco,
soffro nuovamente. Eppure, potrei giurare di essere stato felice nel mio atto
di ribellione. A questo mi aggrappo, questo mi incoraggia a tentare nuovamente,
con rinnovato vigore, un’impresa intrinsecamente fallimentare. Per un attimo,
una brezza piacevole rinfresca la mia fronte sudata e i miei muscoli tesi. Ma
non c’è tempo per questo, no, bisogna continuare a spingere.
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Stavolta, ho pensato di
lasciare spazio a qualche considerazione personale e letteraria. Infatti, la
mia passione per Sisifo e il suo destino assurdo è nata principalmente
scoprendo e, successivamente, leggendo un saggio del grande scrittore francese
Albert Camus. Egli, infatti, spiega ne Il mito di Sisifo come la condanna di
Sisifo sia intrinsecamente assurda: si ritrova infatti in un mondo senza moto
reale, che continua a riproporsi nello stesso modo all’osservatore e soggetto
che ne fa parte, ossia Sisifo stesso. Questo mondo assurdo è esattamente lo
stesso in cui viviamo noi, secondo la Weltanschauung esistenzialista, un mondo
scevro di qualsivoglia significato, privo di una vera e propria logica. Non è
un caso che l’esistenzialismo sia nato come risposta al secondo dopoguerra e alla
devastazione materiale e spirituale che ha portato con sé.
Tuttavia, l’esistenzialismo è lontano dall’essere una filosofia della crisi che si limita a prendere atto di essa senza proporre un messaggio positivo. Scrittori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Simone de Beauvoir, infatti, sono famosi per il loro impegno sociale e civile. Questo è sintomo del fatto che questa triade non circoscriva la propria opera ad una élite di intellettuali, bensì cerchi di rivolgersi ad un vasto pubblico, almeno attraverso la propria narrativa. L’obiettivo, chiaramente, è quello di divulgare, di arrivare alle persone, alla società – un obiettivo che condivido anch’io che scrivo questo blog, seppur in modo molto più modesto.
Alla luce di questo
attivisimo sociale, è possibile quindi passare alla seconda parte dell’analisi
di Camus. Egli, di fronte ad un mito tanto assurdo e apparentemente crudele,
elabora una risposta positiva, suggerendo che Sisifo, in realtà, sia felice. “La
lotta stessa verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”, dice Camus,
estendendo quindi l’oscuro mondo del mito greco oltre i confini dell’assurdità
e della crudeltà dell’esistenza fino a raggiungere il paradiso della felicità. Questo
si concretizza quando un uomo, di fronte ad un destino più grande di lui, si
ribella, lotta, si indigna, non accetta la propria sorte: in quel momento, in
quell’atto, egli si erige a capitano della propria nave, si mette al timone e
prende il controllo di un’esistenza priva di logica. E questa logica, non c’è
bisogno di dirlo, viene a coincidere con quella che l’uomo decide di
attribuirle: l’esistenza è assurda solo nella misura in cui l’uomo non le
ascrive un proprio senso, un proprio significato; e nel fare ciò, egli si
ribella ad un destino crudele e ad un mondo indifferente, assumendo pertanto
una dimensione individuale improntata alla lotta.
Per scoprire qualcosa in più sull'esistenzialismo, invito alla lettura di questo vecchio post su questo blog.