domenica 4 settembre 2016

Los*

Posto qui sotto un altro monologo interiore / mini-racconto sul modello de 'Il fabbro', 'Alba', 'Nuvole' e 'Risveglio'. Qualsiasi tipo di feedback è più che apprezzato.

© Elena Pagnoni Photography


Osservare le persone ha sempre esercitato un certo fascino su di me. Guardarle camminare per la strada con quel passo affrettato di chi è in ritardo per l’imminente lezione di filologia germanica o di chi ha ricevuto una delusione troppo grande per rimanere sotto l’occhio pubblico ancora a lungo; guardarle interagire tra di loro, ridere degli errori altrui, saltellare allegramente in un pomeriggio domenicale o trascinarsi a casa dopo una notte brava in discoteca; guardarle pranzare sontuosamente attraverso il vetro di una brasserie, osservarle masticare carne con disinvoltura e con un grande senso di civiltà. L’umanità è lo spettacolo migliore a cui possiamo assistere. La lente pubblica non permette a nessuno di passare inosservato e io, in fondo, non sono tanto diverso. Li osservo nei loro gruppi selezionati come in quelli circostanziali, li guardo nella loro pacifica solitudine come nel loro goffo stare insieme.
È questo stare insieme, forse, ad avermi sempre creato problemi. Il perpetuo convivere con l’altro, la continua lotta di capirlo, lo stesso identico risultato ogni volta. Pensi di aver fatto breccia nel suo nucleo ma poi improvvisamente ti accorgi di esserti perso un satellite. Fai quindi un passo indietro, lo osservi, noti dei pezzi, delle parti mancanti, oscure, opache. Non riesci ad avere una visione d’insieme, pur sapendo che una singola parte non significa nulla da sola. Allora ricomponi quel puzzle con dei tuoi pezzi, meglio che puoi, riarrangiandoli in combinazioni sempre nuove. Ciò che manca lo completi, così, giusto per dare una sagoma meglio definita a quell’enigma. Comprendi le sue parti ma non concepisci nemmeno la sua interezza.
Impari ad osservare, a stare in disparte, a svincolarti dalle dinamiche sociali per avere una visione migliore, cerchi insomma di creare tra te ed esse una distanza tale da permettere il giudizio e la critica. Inizi a girarci intorno come ad una statua su un piedistallo sopraelevato in un museo, osservandola da diverse angolazioni ma pur sempre dalla tua modesta altezza. Pensi di comprenderla in toto, di averne studiati i minimi dettagli, ma dimentichi di non essere in grado di osservarla dall’alto. Non riesci a collegare i pezzi, sei incerto sull’aspetto della parte di quella statua che è rivolta verso l’alto. È in questa incompletezza di giudizio che procedi al completamento del cerchio, alla rimozione di quell’incertezza che è condizione necessaria del tuo osservare. Allo stesso modo in cui io osservo i passanti e immagino che siano in ritardo per una lezione di filologia germanica o leggo sul loro volto una delusione difficile da contenere, tutti noi completiamo le immagini degli altri a nostro piacimento, tra elementi reali e collegamenti immaginari. Creiamo dei personaggi nella nostra mente, diventiamo per un attimo drammaturghi e li mettiamo in scena. “Vediamo che succede se metto insieme un ragazzo ritardatario con uno dal cuore spezzato, chissà cosa succederebbe se il primo si rivelasse la causa scatenante del dolore del secondo, che in realtà lo starebbe quindi inseguendo per cercare vendetta.”
E allora ci raccontiamo delle storie su ciò che ci circonda, ce ne convinciamo, confondiamo mito e realtà, vissuto e raccontato, li fondiamo in un insieme organico, in diverse combinazioni, sempre più avvincenti, sempre più convincenti. Ecco qua la vita: un continuo tentativo di costruire impalcature per sorreggere dei frammenti di una realtà insondabile. Come degli archeologi che mettono insieme i pezzi di un tempio romano, aggiungendo qua e là delle parti in mattone, giusto per collocare tutto al giusto posto. E tuttavia, l’insieme è ancora frammentario, è lasciato in parte all’immaginazione dell’osservatore, senza che questo, quindi, possa recepire un messaggio univoco. E anche in questo sta la difficoltà infatti, comunicare all’altro, rendere un passivo ricevere una continua interazione. Perché anche lui, come te, faticherà, stenterà, magari in parte si rifiuterà. Come possono due esseri così incompleti interagire così perfettamente? Questa mancanza, questa incompletezza, questo essere in dubbio è in fondo il nostro destino, quello che ci condiziona nell’assoggettarsi a questa rete sociale. È parte della nostra libertà negata ai fini del contratto sociale ed è pertanto parte integrante della nostra condizione. Mancanza e destino così intrinsecamente legati, chi l’avrebbe mai detto?
Arriva un certo momento della vita in cui lo realizzi, lo noti intorno a te, inizi a raccontarti storie al riguardo e quindi adotti l’unico approccio che possa darti una forma di libertà: te ne vai. Vedi questi fili che prima erano invisibili, li tagli di netto, inizialmente è strano, fa male. Ti ritrovi su una fredda strada ad osservare i passanti. Inizialmente li sdegni, ti fai beffa del loro vacuo passare, sogghigni davanti ai loro fallimenti, alla loro casualità, al loro essere parte di un enorme e futile formicaio. Poi inizi a realizzare che quel dolore iniziale non era solamente psicologico, quei fili erano in realtà dei tuoi nervi, sottili, che si diramavano verso gli altri, verso il mondo, permettendoti di percepire la loro umanità e incompletezza, consentendoti di accedere ad un piano diverso in cui le incertezze magicamente si dissipano. Ti ritrovi svincolato dalla gente, perdi l’esperienza dello stare al mondo, dimentichi come ci si senta, come quando un anziano cammina per il parco e vede dei bambini andare su quelle giostre circolari che girano; li vede girare e girare, ridere, impanicarsi per la velocità eccessiva, quindi rallentare. Così io continuo a camminare, senza provare più molto. Questo è il cammino intrapreso, questa la mia scelta, questa la mia attuale condizione. Mancanza, destino, via.
La mia vita è su una strada al di fuori della società, al di fuori della norma. Sono l’autoesiliato che vive nell’osservare la propria patria. Questo imperfetto osservare mi rende uno spettatore che riesce a vedere solo alcune scene e che quindi si eleva a drammaturgo per dare loro una forma più consona, più regolare, più afferrabile col pensiero. Ma in fondo, anche questa è una delle mie storie.



*Los in tedesco è un suffisso che indica mancanza, in parole come “wortlos” (Wort = parola, + -los = mancanza; “senza parole”) o “namenlos” (Name = nome, + (-n) + -los = mancanza; “senza nome, anonimo”). Come sostantivo, das Los, significa destino, ciò che ci tocca in sorte. Los è anche un prefisso per verbi separabili, nel quale contesto significa generalmente “via”; indica un partire, un allontanarsi, come nel caso del verbo “losgehen” (los- = prefisso, + gehen = andare; “andare via, andarsene”). Interessante, poi, che questo stesso verbo, andarsene, in tedesco voglia anche dire cominciare. Jetzt geht’s los, ora si comincia.