giovedì 19 maggio 2016

I miei Autori: Virginia Woolf

George C. Beresford, 'Virginia Woolf in 1902'
Virginia Woolf nasce Adeline Virginia Stephen il 25 gennaio 1882 a Kensington, Londra. Viene considerata oggi una delle scrittrici più importanti sia del modernismo, movimento di inizio Novecento, sia più generalmente della letteratura inglese. La Woolf è passata alla storia, oltre che per i suoi fenomenali romanzi, anche per il suo impegno nella lotta femminista della prima metà del secolo scorso.

Dopo un primo momento di sperimentazione con racconti brevi, Virginia si dedica a romanzi più voluminosi, primo fra tutti The Voyage Out (1915), a seguire Night and Day (1920), Jacob’s Room (1922), Mrs Dalloway (1925), To the Lighthouse (1927), Orlando: a Biography (1928), The Waves (1931), The Years (1937) e Between the Acts (1941). Come si può notare anche solo dalle date di uscita dei romanzi, Virginia Woolf fu una scrittrice prolifica, che passava le giornate a leggere e scrivere. Ne è un sintomo anche la grande quantità di saggi da lei scritti su diversi temi, primi fra tutti quelli femministi e letterari. Tutti i suoi libri venivano pubblicato attraverso la Hogarth Press, una casa editrice fondata da lei stessa e suo marito Leonard Woolf, da cui Virginia prese il cognome com’era consuetudine ai tempi.

Figlia di un illustre personaggio del Vittoriano, la scrittrice londinese ha sempre sentito il peso della tradizione sulle sue spalle, che si trattasse di quella del realismo e della narrazione convenzionale dei testi del XIX secolo o quella più generalmente legata alla mentalità delle generazioni a lei precedenti. Virginia si oppose ad entrambe le influenze, pur sentendone fortemente il peso. I suoi romanzi sono spesso testi d’avanguardia, che si propongono di rompere con la tradizione stabilita dai periodi precedenti. Basti pensare che il suo terzo romanzo, Jacob’s Room, è pensato come una biografia di un protagonista, Jacob Flanders, che in realtà non ci è dato modo di conoscere. Questa idea deriva, da una parte, dal desiderio sempre forte della scrittrice di rivoluzionare la letteratura e avvicinarla alla vita: scrive infatti nel suo diario che questa volta intende lasciare tutto “crepuscolare”, senza alcun tipo di “impalcatura”, con “a malapena un mattone in vista”. Dall’altra, questa concezione di romanzo si rifà anche e soprattutto alla sua opinione secondo la quale è impossibile conoscere un’altra persona, poiché la mente altrui è impenetrabile. Nel romanzo, la narratrice – o, volendo, l’autrice stessa – dà voce a questi punti di vista diverse volte.

Nobody sees any one as he is, let alone an elderly lady sitting opposite a strange young man in a railway carriage. They see a whole – they see all sorts of things – they see themselves… (Jacob’s Room, Oxford: OUP, p. 36)

Nessuno vede qualcun altro com’è davvero, figuriamoci una signora anziana seduta di fronte ad un giovane sconosciuto nella carrozza di un treno. Vedono un insieme – vedono qualsiasi cosa – vedono loro stessi...

It is no use trying to sum people up. One must follow hints, not exactly what is said, nor yet entirely what is done – [...] (Jacob’s Room, Oxford: OUP, p. 37)

È inutile provare a riassumere le persone. Bisogna seguire degli indizi, non esattamente ciò che viene detto, neppure totalmente ciò che viene fatto – [...]

Anche lo stile di Virginia Woolf è particolare, frammentario, spesso ostico, simbolico. Si rifà di frequente a delle immagini per esprimere l’ineffabile e per contribuire alla caratterizzazione dei personaggi. Nel caso di questo terzo romanzo, di fatto come lettori conosciamo il protagonista solo attraverso la prospettiva di altre persone, dei posti che frequenta, degli oggetti che possiede. Diventa pertanto chiaro come la Woolf attingesse ad un genere del tutto tradizionale come quello della biografia per creare una “biografia di frammenti”, come la definì la sua più grande biografa, Hermione Lee, di fatto ampliando gli orizzonti di un genere così usuale, persino banale.

Un discorso parallelo e al contempo trasversale è poi quello femminista. Virginia, infatti, non poté frequentare l’università a causa dei numeri esigui di college e università aperte alle donne all’epoca. Attraverso suo fratello Thoby, tuttavia, riuscì ad avvicinarsi ad un insieme di studenti di Cambridge, con cui avrebbe poi fondato il Bloomsbury Group a Londra. Questo gruppo era famoso all’epoca per essere estremamente d’avanguardia: non solo raggruppava artisti e intellettuali del calibro di Lytton Strachey, Vanessa Bell, sorella di Virginia, Duncan Grant e John Maynard Keynes, ma i rapporti tra di loro erano spesso dettati da un desiderio di evasione dalle costrizioni sociali, tant’è che si dice – e ce n’è traccia nei diari della scrittrice – che ognuno si sentiva libero di sperimentare anche in campo sessuale con qualsiasi altra persona del gruppo, maschio o femmina che fosse.


Alcuni membri del Bloomsbury Group, tra cui Vanessa Bell e Lytton Strachey

























Quest’idea di libertà sessuale individuale, è inutile dirlo, era estremamente rivoluzionaria all’epoca, come lo era l’interesse di Virginia per il femminismo e la liberazione della donna da una società fatta di uomini. In uno dei suoi saggi di stampo femminista, nonché uno dei più famosi, la Woolf sostiene il diritto di ogni donna ad avere “una stanza tutta per sé” (in inglese, “a room of one’s own”) poiché questo consente ad ogni donna di assumere e curare una dimensione personale che trascenda i suoi obblighi morali di moglie e madre. Non a caso Virginia passava il suo tempo a scrivere, specialmente romanzi, racconti, saggi e lettere, nonché a leggere opere di diversi autori inglesi e non per poi scriverne delle recensioni.

Un altro aspetto caratterizzante della vita dell’autrice è senza dubbio la sua instabile salute mentale. Sentiva spesso delle voci, aveva attimi di profonda depressione seguiti da serenità e anzi occasionale felicità. Suo marito Leonard fece il possibile per aiutarla, trasferendosi qua e là in modo tale da cercare la pace della campagna o il caos della città per poterla tenere occupata; la fondazione della Hogarth Press rientra in questo tentativo di dare sfogo alla sua creatività, tant’è che tutti i suoi testi sono molto chiaramente privi di un vero e proprio lavoro di editing svolto da terzi: tutto ciò che ha scritto è passato solamente attraverso il suo filtro di scrittrice ed è probabilmente grazie a questo che possiamo godere del suo peculiare stile anche oggi senza tagli e censure di vario genere.

Com’è risaputo, Virginia Woolf si suicidò nel fiume Ouse il 28 marzo del 1941, lasciando dietro di sé grandi romanzi e la seguente lettera al marito:

Dearest, I feel certain that I am going mad again. I feel we can't go through another of those terrible times. And I shan't recover this time. I begin to hear voices, and I can't concentrate. So I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don't think two people could have been happier 'til this terrible disease came. I can't fight any longer. I know that I am spoiling your life, that without me you could work. And you will I know. You see I can't even write this properly. I can't read. What I want to say is I owe all the happiness of my life to you. You have been entirely patient with me and incredibly good. I want to say that – everybody knows it. If anybody could have saved me it would have been you. Everything has gone from me but the certainty of your goodness. I can't go on spoiling your life any longer. I don't think two people could have been happier than we have been. V

Carissimo, mi sento sicura che sto impazzendo di nuovo. Sento di non poter attraversare un altro di quei terribili periodi. E non rinsavirò questa volta. Inizio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi farò ciò che mi pare essere la cosa migliore da fare. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che una persona possa essere. Non penso che due persone possano essere state più felici finché non arrivò questa terribile malattia. Non riesco più a lottare. So di star rovinando la tua vita, so che senza di me potresti funzionare. E funzionerai, ne sono sicura. Vedi, non riesco neanche a scrivere questo per bene. Non riesco a leggere. Ciò che voglio dire è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato totalmente paziente con me e incredibilmente buono. Voglio dirlo, tutti lo sanno. Se qualcuno mi avesse potuto salvare quel qualcuno saresti stato tu. Tutto è scomparso da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinare la tua vita. Non penso che due persone possano essere state più felici di noi due. V


Con queste parole, Virginia prese congedo dal tiepido microcosmo che apparteneva a lei e a suo marito Leonard, ma al tempo stesso abbandonò anche quella realtà fortemente maschilista e assolutamente crudele che non poteva non vedere e anzi osservare ogni giorno. Attraverso i suoi scritti, la Woolf vive ancora, la sua aura è destinata a brillare intorno alla fiaccola del femminismo, dell’uguaglianza, del genio e della scrittura. Mentre lei affoga nel fiume appesantita da delle pietre nelle tasche, il mondo va avanti, dimentico di ciò che lei ha saputo lasciare. E noi ci troviamo qui a cercare di rimembrarla e a riconoscerle i meriti che le spettano.

venerdì 6 maggio 2016

Adolf Hitler e il Male




Dopo aver visto il film dal titolo Lui è tornato, ho pensato di buttare giù qualche considerazione personale sul tema. Come probabilmente molta gente avrà capito dal trailer, il film esplora la possibilità che Adolf Hitler si risvegli nel 2014 direttamente sopra al bunker in cui si era suicidato nel ’45 e che divenga presto oggetto di un documentario nonché di un programma televisivo.

Chiunque abbia studiato la letteratura tedesca del secondo Dopoguerra saprà che la Germania ha avuto parecchia difficoltà a superare quel capitolo nero della sua storia, tant’è che anche oggi il nazismo è spesso considerato un tabù e non è, come accade per esempio per il fascismo in Italia, oggetto di satira o ironia. In tedesco, oltretutto, esiste una parola che sta a rappresentare l’obiettivo di superare il passato – e nello specifico quel passato: Vergangenheitsbewältigung. Dal 1945 in poi, questo concetto è stato esplorato da diversi scrittori tra cui Thomas Mann (e la sua famiglia di scrittori in generale) e Günter Grass, tanto per citare due premi Nobel per la letteratura. Mentre il secondo esplorava i tempi del nazismo – e non solo – tramite il genere del romanzo storico (si veda, per esempio, il celebre Tamburo di latta), il primo ragionava su questa funerea parentesi nella storia dell’impero tedesco riprendendo, tra le altre cose, la storia del Faust e riadattandola in forma romanzata. Peraltro in questo testo, dal titolo appunto Doktor Faustus (Dottor Faustus in italiano), Thomas Mann suggerisce, attraverso un parallelismo con un personaggio, che la Germania abbia fatto un patto col diavolo, col male assoluto, scegliendo Adolf Hitler come cancelliere nel 1933. Il tema del Faust, ossia quello del patto col diavolo per accedere all’onniscienza e alla totalità della vita in tutte le sue sfaccettature, viene qui pertanto declinato in un’ottica storico-culturale per fare luce sul male che si impossessava di quel Paese dei poeti e dei pensatori (das Land der Dichter und Denker) e lo tramutava in un Paese dei giudici e dei boia (das Land der Richter und Henker, notare l’assonanza in tedesco).



Il film Lui è tornato (in tedesco, Er ist wieder da), tratto dall’omonimo romanzo di Timur Vermes del 2012, pur presentando spezzoni dal lampante umorismo tipicamente tedesco, propone anche una serie di spunti interessanti, per quanto non inediti. Affascinanti sono gli spezzoni girati come una sorta di esperimento sociale in cui un attore impersona Adolf Hitler e si confronta con l’attualità e in particolare con i problemi rilevati e messi in evidenza da una fetta consistente della popolazione. In queste scene, gli attori si espongono ad un pubblico genuino, sincero, che non manca di aprirsi a considerazioni razziste e populiste. Colui che si assume essere l’ex dittatore è certo molto bravo ad incoraggiare le persone a dare sfogo ai propri pensieri e al proprio malcontento e non manca, in alcune occasioni, di mettere in evidenza la crisi politica e valoriale subita dalla Germania e, con lei, dall’Europa se non dal mondo intero. Problemi come i recenti flussi migratori e l’antipolitica vengono additati da lui, quel mancato pittore definito ironicamente da Bertolt Brechtl’imbianchino” (der Anstreicher, in tedesco), con una retorica invidiabile che fa certamente leva sulla frustrazione di una buona parte della popolazione tedesca.

La sua dialettica emerge immediatamente accanto alla sua capacità di adattarsi alla nuova realtà del secondo decennio del ventunesimo secolo e sono precisamente queste due qualità a garantirgli un successo virale nella società dei mass media. Le parti effettivamente recitate e orientate al dispiegamento di una narrativa vera e propria, infatti, ritraggono Hitler come un nuovo fenomeno tanto divertente quanto caustico e sagace. Ben presto colui che si assume essere solamente un impersonatore dell’ex dittatore fa breccia nel mondo della televisione nonché nella quotidianità del popolo tedesco. Il personaggio principale che scopre per primo questo nuovo fenomeno e che lo accompagna in giro per la Germania in una serie di avventure, appunto, genuine, è l’unico che effettivamente realizzi che quella persona che non esce mai dal proprio ruolo è veramente il mancato pittore di origine austriaca e questo gli crea, come ci si può aspettare, un crollo di nervi e la perdita della sanità mentale. Senza dare troppo spazio a spoiler, che comunque in questo film hanno poco da rovinare, citerò solamente a cosa arriva questa nuova pellicola. Conclusione di Lui è tornato è infatti che Hitler, in quanto incarnazione del Male, è un fenomeno quasi endemico, imprescindibile dall’esistenza quotidiana di qualsivoglia individuo. Questo male, pertanto, altro non è che una parte significativa di noi stessi, il che mi riporta alla mente una scultura che vidi un paio d’anni fa all’Ashmolean Museum di Oxford: “Teseo e il Minotauro” (1942) dello scultore lituano Jacques Lipchitz.




Secondo quanto raccontato dall’artista stesso, all’inizio egli intendeva rappresentare l’orrore della guerra e la lotta, in particolare, tra Hitler-minotauro e De Gaulle-Teseo. Il punto focale iniziale era in gran parte quello della fuga e del salvarsi da un male incombente – anzi, di fatto già manifesto – poiché egli, in quanto ebreo, era preoccupato dalla minaccia dell’imbianchino in Europa. Tuttavia, con l’evoluzione del concetto e, con esso, della scultura stessa, egli realizzò che di fatto i due personaggi in lotta fanno parte l’uno dell’altro: Teseo sta lottando non solo contro il Minotauro, ma, di fatto, contro una parte di sé stesso.


Allo stesso modo, Lui è tornato sottolinea quest’appartenenza di Hitler non solo alla storia tedesca e al suo sviluppo, ma anche e soprattutto allo spirito tedesco dal 1945 in poi. Il tentativo di affrontare quel funesto passato coincide con la lotta di Teseo per sconfiggere una parte di sé. Guardato da una prospettiva più vasta, il Male e l’umanità sono imprescindibili l’uno dall’altra e l’arte ci convince molto spesso che possiamo individuare un Minotauro e distaccarlo da noi, ma nel momento in cui pensiamo di essercene liberati noteremo invece che qualcosa è rimasto, che “lui è tornato”.