Risvegliarsi
da sogni imbarazzanti, ritrovarsi in un letto, da soli, senza via di fuga. Sentirsi
gli occhi gonfi di lacrime non versate. Fare colazione con la nausea accanto a
te che ti accarezza, che ti dice che hai proprio una faccia da schifo stamattina.
Continua a farti discorsi, a chiederti che fine abbia fatto il tuo sonno di
bellezza, dove sia finito il tuo bel viso truccato e curato della serata
precedente, dove tu abbia lasciato la voglia di vivere. Non senza ironia. “Ti
sei tolta il trucco per portare questa miserabile maschera di sofferenza?
Suvvia, sei giovane, la vita è bella alla tua età”. Ora inizia a sembrare tua
madre, la tua vicina di casa, una amica di tua zia. Ti propina luoghi comuni
sulla felicità. “Tu non vedi ciò che vedo io” le rispondo, pentendomene
immediatamente, cogliendo una sfacciataggine bambinesca che non mi rappresenta.
“Sei solo una ragazzina viziata” riprende lei, “Non apprezzi un briciolo della
fortuna che hai! Ci sono ragazze che soffrono per il loro fisico, per il loro
aspetto, per come le vedono gli altri, e tu guardati! Quelle gambe, quel viso
perfettamente calibrato e modellato alla perfezione. Non hai proprio nulla di
cui lamentarti”. Penso a quell’uccellino nella gabbia di cui parlava Van Gogh
in una lettera al fratello, a quanto le nostre vite viste da fuori possano
sembrare tutto tranne quello che sono realmente. Da fuori tutto ciò che si vede
è una facciata vuota, su cui gli altri proiettano una felicità che in realtà
non ci appartiene. Penso al paragone con il camino: dentro, un fuoco
scoppiettante, fuori, del fumo che esce dal camino. Da fuori, un uccellino in
gabbia con tutto ciò che potrebbe desiderare nella sua limitata visione della
vita: cibo, ammirazione, magari qualche carezza, tanto affetto. Da dentro, un
uccellino in gabbia a cui tocca costantemente vedere la grande migrazione dei
suoi simili passare davanti alla finestra, istinti che è costretto a reprimere,
ignorando la primavera che intona un canto altisonante.
In
questi giorni risvegliarsi è come finire la morfina in corpo. Il cervello si
attiva, gli occhi si aprono, il dolore torna a fluire. Come se fosse
quest’ultimo a dettare quando sono sveglia e quando invece dormo, cullata da
incubi che sogghignano incessantemente. Perlomeno quando sogno sono in un altro
mondo, qualcosa che mi appartiene, nel bene e nel male. Quando mi ritrovo, come
ogni giorno, tra queste candide lenzuola profumate, subentra una sensazione di
essere nel posto sbagliato, il disagio e lo sconforto irrompono nella serenità che
solo la notte sa portarmi. Scosto le coperte, mi alzo senza slancio, mi ritrovo
seduta su un lato del letto, quello di fronte allo specchio. Di nuovo quella
faccia, quella maschera di sofferenza che indosso costantemente in periodi come
questo. Di nuovo quel corpo da pubblicità su riviste giovanili, di nuovo la
nausea di essere me stessa e non quell’immagine di me che gli altri si
divertono tanto a vendere. Un singhiozzo rompe il mio viso equilibrato come a
ribadire l’importanza capitale che questa malattia dello spirito ha ormai
assunto nella mia vita.
Mi sento
addosso una stanchezza esistenziale impareggiata da ore passate a camminare su
una passerella con addosso i vestiti più assurdi, con le espressioni più
seducenti e felici che il mio viso mai conoscerà, ore passate ad esibire non
soltanto un bel corpo, ma anche e soprattutto una presunta felicità sociale e
lavorativa che non mi appartiene in alcun modo. Giorno dopo giorno mi ritiro in
questa mia tana per abbeverare i miei demoni con il mio sangue. Questi si
contorcono ed emettono grugniti mentre il mio sangue scorre inesorabilmente
dalle mie vene, si avvicinano senza curarsi della mia incolumità, si nutrono di
me e dei miei venticinque anni. Calde lacrime si annidano negli angoli dei miei
occhi, mi impediscono di vedere ciò che succede e, almeno in questo, trovo
conforto.
Come
sono arrivata fin qui? Chi mi ha trascinato in questa arena di sconforti e
fatiche? Dove trovo l’uscita verso un mondo confortante? Esiste un modo per
deviare da questa rotta che mi porta in lande desolate, verso un’arsura che le
mie forze non riescono in alcun modo a temperare? Come sacrificai la mia vita
sull’altare dell’equilibrio e dell’armonia estetici? Come porre rimedio ad un
azzardo? Domande che mi assillano, che pongono la mia mente sotto assedio ormai
da anni. I viveri iniziano a scarseggiare e questo assedio non pare voler
terminare.
Come
ogni mattina, mi preparo. Ricopro il mio corpo di vestiti costosi, di profumi
intensi, di accessori sfavillanti per celare un po’ più in profondità questa
miseria esistenziale. Esco di casa e noto l’inutilità delle nostre apparenze,
la necessità di esibire una serenità che spesso non ci appartiene, il bisogno
viscerale di avere rapporti umani, di scambiare parole, per quanto vacue, con
individui di cui temiamo il giudizio, senza diritto di deroga. Vedo i binari
che mi conducono verso le solite consuetudini, le stesse marmoree leggi che
giorno dopo giorno mi fanno affondare nella disperazione. Deragliare dovrebbe
essere un diritto di tutti. Scostarsi per un attimo da questo cammino di strazi
per poter vedere altro, per cercare qualcosa, ma senza mai trovarla. Per essere
semplicemente cercatori, per evitare questo fardello sociale ed esistenziale,
per costruirsi un proprio spazio vitale senza necessariamente intaccare quello
degli altri. Tagliare i fili che ci legano agli altri per poter operare le
proprie scelte senza dover necessariamente agire in questa trappola della
normalità e delle apparenze.
“Alice!”
sento chiamare dietro di me. Mi volto. Una mia collega mi abbraccia, capelli
perfetti, sorriso inattaccabile, voce squillante. Dentro di me la ringrazio, mi
stavo dimenticando della mia apparenza. Altro giorno, stesso gramo ruolo su
questo palcoscenico. Passati gli inconvenienti, alzo gli occhi al cielo: uno
stormo di uccelli migratori taglia longitudinalmente questo azzurro
cristallino. Emetto un sospiro e mi focalizzo nuovamente sulla mia direzione:
si torna in scena.
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