Hermann Hesse nasce il 2 luglio 1877 a Calw, in Baden-Württemberg, da famiglia
pietista di origine sveva e baltica. Verso la fine della sua carriera, nel
1946, fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Ciononostante, si
tratta di un autore a cui molto spesso la germanistica di stampo classicista
non riconosce piena dignità letteraria, probabilmente in vista del carattere
spesso autobiografico e adolescenziale dei suoi testi.
Hesse pone infatti al centro della sua opera la ricerca di sé. Questo è
visibile non soltanto in romanzi per così dire spirituali come Siddharta,
ma è percepibile in diverse misure in tutta la sua opera: protagonisti delle
sue storie sono spesso ragazzini alla ricerca del loro equilibrio e di un
sereno stare al mondo. Il superamento delle crisi esistenziali è una parte
fondamentale del percorso che viene sviluppato all’interno dell’arco narrativo,
tant’è vero che la sua opera più ambiziosa, Das Glasperlenspiel (in
italiano, Il giuoco delle perle di vetro) del 1943, viene spesso
additata, tra tante altre, come un Bildungsroman (letteralmente, ‘romanzo di formazione’)
o una versione alterata di esso.
Il suo stile tocca molto spesso toni lirici e personali che sanno far
breccia nel lettore e che sono in grado di comunicare con la sua parte più umana
e spirituale. Hesse attinge spesso ad una sorta di versione migliorata di noi
stessi, credendo di fatto che ci sia un io migliore all’interno di ognuno di
noi che aspetta di schiudersi ed aprirsi al mondo. È in questa poeticità, in
particolare contrasto con l’orrore della guerra e con la crudeltà del mondo,
che Hesse, a mio avviso, acquista particolare rilievo. All’interminabile e
sempre migliorabile ricerca di sé, di un io migliore, infatti, questo autore sa
attribuire una funzione cardine in ogni individuo, per ricordarci in fondo che
non siamo solamente una persona, una maschera, ma che siamo in continuo divenire,
proprio come il fiume in Siddharta. La nostra evoluzione non si può e
non si deve arrestare mai, dobbiamo essere, come suggerisce in questo romanzo,
dei ‘Suchende’, dei cercatori, instancabili ed orientati verso la nostra
evoluzione.
In un’opera successiva, Der Steppenwolf (in italiano, Il lupo
della steppa) del 1927, Hesse si dedica ad un protagonista per lui
piuttosto atipico: si tratta, infatti, di un uomo di mezza età che ha deciso di
suicidarsi il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Per quanto i tratti
autobiografici siano evidenti anche in questo Harry Haller, le cui iniziali
richiamano in modo lampante quelle dell’autore, il lettore si trova tuttavia
davanti un protagonista che ha già compiuto un percorso e che ha già raggiunto
determinate conclusioni circa la sua vita. Queste conclusioni vengono riassunte
in un ‘Traktat’ (generalmente tradotto in italiano come ‘dissertazione’) che
tocca in particolar modo il rapporto problematico con la borghesia e la
conflittualità presente in Harry: egli, infatti, presenta due personalità in perenne
lotta tra di loro, ossia l’uomo e il lupo. Mentre l’uno lo spinge alla civiltà
e lo rende di fatto parte integrante della borghesia, dell’ordine civile e del
decoro che domina questo strato sociale, l’altro gli impedisce di accettarlo
totalmente, lo incoraggia effetivamente a rinnegare questa parte di sé e mette a
nudo tutte le ipocrisie che sono parte fondante di una classe sociale orientata
al profitto, a dei dubbi valori e ad una vita ordinaria e catalogata. Il romanzo,
quindi, nonostante la sua atipicità, rappresenta di fatto la risoluzione di una
crisi ed è quindi in linea con la poetica hessiana.
Un frame dal film Steppenwolf di Fred Haines (1974) |
Premessa fondamentale del superamento di una crisi in Hesse, come nella
vita, è il confronto con l’Altro. Spesso, infatti, questo autore tedesco
propone due poli in contrasto tra di loro, la sintesi dei quali genera un senso
di serenità e permette al protagonista, in particolar modo, di raggiungere un
io migliore, più alto, per quanto brevemente. Questo, cionondimeno, non
significa che Hesse abbia scritto unicamente romanzi dal finale positivo ed
ottimista, anzi, spesso i finali sono amari o finiscono in tragedia; tuttavia
all’interno della narrazione è sempre presente un momento positivo generato
precisamente dall'incontro-scontro di due forze opposte: in Der Steppenwolf
queste sono racchiuse nel protagonista stesso, ma più tipicamente queste
vengono incorporate in due distinti personaggi, come in Demian possono
esserlo Emil Sinclair e Max Demian, o in Unterm Rad (in italiano, Sotto
la ruota) Hermann Heilner e Hans Giebenrath, o ancora, in modo più
lampante, in Narziß und Goldmund (in italiano, Narciso e Boccadoro)
i due personaggi eponimi. La polarità tipica di Hesse è quindi premessa
fondamentale del percorso verso un io migliore.
Richard Ziegler, 'Hermann Hesse' (1950)
© Richard-Ziegler-Stiftung Calw
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Un discorso poi spesso trasversale è quello della psicanalisi, in
particolare quella di Carl Gustav Jung. Con la scoperta di questa, infatti,
Hesse fu in grado di ascrivere uno spessore scientifico a determinati rapporti
all’interno della sua opera. Primo esperimento in questo campo è quello di Demian,
del 1919, ma il suo interesse per e studio della psicanalisi non scemerà
nemmeno negli ultimi anni in cui è la guerra a prendere il sopravvento. Dalla remota
Svizzera, così simbolicamente lontana dalle grida sofferenti dei soldati e
dalla devastazione subita e perpetrata dalla Germania nazista, Hesse compirà il
suo testamento spirituale e letterario condensando in un Bildungsroman
di qualche centinaio di pagine un mondo pacifico improntato alla cultura e all’erudizione
chiamato Castalia. È in questa pace e in questo otium litteratum che immaginiamo
il vecchio Hermann negli ultimi anni della sua vita – ed è precisamente in
questi ultimi anni che il mondo si sdebita del suo contributo alla germanistica
e alla letteratura europea e mondiale attribuendogli il premio Nobel per la
letteratura.
Ciò che più mi attrae di Hermann Hesse è il suo saper essere leggero,
spirituale, a tratti ottimista, ma al contempo anche caustico e critico del mondo
moderno. Al suo pacifico sguardo penetrante il mondo non può sottrarsi, per quanto possa
celare dietro alle sue tante illusioni delle atrocità inenarrabili. Queste divengono
parte della narrazione nell’oeuvre di Hesse, il quale addita in
lontananza ‘die kalte Welt der Anderen’ (“il freddo mondo degli Altri”), come
lo chiama in Demian, ma al tempo stesso ci accompagna verso un percorso
tortuoso e accidentato che ha per meta la ricerca stessa del proprio io e del
proprio spazio all’interno di un mondo freddo ed indifferente, se non crudele. Una
ricerca – e su questo convengo con il caro Hermann – che è tanto astrusa quanto
essenziale al nostro vivere quotidiano.
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