giovedì 19 gennaio 2017

Judith Butler e il fantomatico "gender"

Judith Butler
È ormai da un anno a questa parte che, anche attraverso all’operato delle Sentinelle in piedi – se di operato si può parlare –, girano diverse opinioni, perlopiù poco informate e confuse, su cosa sia questo “gender” tanto temuto dalla buona vecchia famiglia tradizionale. (E già qui mi rendo conto che dovrei mettere molti più incisi e molte più parentesi di quanto la lingua italiana non mi concederebbe).

Inutile ribadire, così dice la parte di me che ha fede nel progresso e nel grado minimo di istruzione dell’italiano medio, che di famiglia tradizionale non si può effettivamente parlare, non qui, non altrove, non ora, né mai. Se qualcuno effettivamente volesse di nuovo scomodare Madre Natura, questo concetto così livido e mal ridotto che io stesso ho voluto tirare in ballo giusto un anno fa per parlare di femminismo, beh, ecco, le mie risposte, spero abbastanza esplicite da essere comprese, le trovereste appunto lì. Questo giusto per partire da un qualcosa di ormai assodato: la natura e la famiglia tradizionale sono concetti che mi piace definire postumi in quanto riportati in vita da chi ritiene di vederli ancora aggirarsi tra noi animali sociali del ventunesimo secolo.

Ma non è per questo che son voluto tornare a scrivere del femminismo. Ciò che non ho mai avuto modo di spiegare in modo abbastanza chiaro ed esplicito è proprio l’idea di “gender”, in parte per negligenza mia, in parte perché non avevo ancora bene in mente qualcuno che ci avesse effettivamente dedicato la propria carriera accademica e personale. Certamente, Simone de Beauvoir disse che non si nasce donne, ma lo si diventa, okay, ma di che cosa stiamo parlando? Certamente quando si è piccole nessuno oserebbe prounciare quella parola che sottende maturità per parlare di bambine. Quindi, da un certo punto di vista, la sua idea si basa anche su un fatto biologico, pur mirando a comunicare qualcosa di diverso.

Simone de Beauvoir fotografata da Henri Cartier-Bresson (1945)

Ebbene, non troppi mesi fa scoprii una filosofa e professoressa di letterature comparate e teoria letteraria presso l’Università della California, Berkeley. Questa tale Judith Butler, che nel mondo anglofono e in campo accademico è molto più conosciuta rispetto a quanto non se ne parli effettivamente in Italia, ha scritto un libro estremamente illuminante sul “gender” dal titolo Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity – per gli amici basta Gender Trouble. In esso, Butler traccia una linea di demarcazione tra il sesso di un individuo e il suo genere (come si può ben immaginare, le parole in inglese sono “sex” e “gender”, che io preferirei tradurre in questo caso dato che abbiamo la fortuna di avere gli equivalenti italiani nella nostra bellissima lingua). Il sesso sarebbe la componente biologica di ogni individuo, l’insieme delle nostre fattezze e funzionalità, insomma la nostra corporalità, nella quale nasciamo e cresciamo. Il genere, invece, ci verrebbe affibiato già dal momento della nostra nascita ed è il risultato quindi di un riconoscimento esterno di ciò che noi siamo, un’etichetta che ci viene incollata in fronte nel momento in cui quelle fattezze vengono ricondotte unicamente ed esclusivamente ad una categoria o all’altra.

Qui la situazione si complica. Crescendo, infatti, noi iniziamo a mettere in atto questo genere attraverso i nostri gesti, le nostre azioni, i nostri gusti, insomma attraverso le nostre scelte. Il genere viene pertanto ritenuto da Judith Butler una questione di performatività – e non di espressione. Alla nascita ci viene comunicato in quale delle due categorie veniamo agilmente sistemati e noi creiamo una nostra identità di genere attraverso le nostre azioni, sì, ma in un quadro prestabilito di stampo eteronormativo e, di base, di dominanza maschile. Le ragazze giocheranno con le bambole, adoreranno il rosa, i vestitini, i trucchi, non sapranno guidare né parcheggiare, saranno sensibili, isteriche, umorali; i ragazzi, al contrario, saranno forti, sportivi, dominanti, ameranno i motori e il lavoro manuale. Si tratta di una finzione regolatrice che ci impone modelli da seguire a seconda della nostra appartenenza ad una o l’altra categoria. Non si tratta pertanto di “esprimere” noi stessi, si tratta di “mettere in atto” delle tendenze e dei gusti prestabiliti.

Momento simpatia
Tutto questo suggerisce pertanto che la nostra identità di genere ha poco a che fare con il nostro sesso. Essere uomini o donne non comporta tutta una serie di aspettative sociali, implica semplicemente differenze biologiche che hanno poco a che fare con ciò che la società ci propina come ferree regole per essere membri di uno o l’altro genere. La nostra identità di genere non è dettata da leggi naturali o biologiche a noi innate e pertanto inevitabili, no; essa viene costruita dal nostro agire all’interno di una società che abbina ad un determinato sesso uno specifico genere e, di conseguenza, una determinata identità sociale. Non a caso una delle principali fonti di ironia e umorismo è proprio l’inversione delle aspettative di genere, come documentato non soltanto dalle commedie dell’antichità e, più genericamente, del passato, ma anche dalle attuali commedie americane (la prima che mi venga in mente a farne ampio uso è Modern Family, basti pensare alla coppia di Phil e Claire). Oltretutto, un fenomeno che nuoce gravemente alla credibilità dell’identità di genere è quello delle drag queen, uomini – dal punto di vista del sesso – che sfidano le convenzioni di genere e si appropriano di fattezze e comportamenti che sono propri della categoria alla quale non dovrebbero appartenere.

In quest’ottica, questa antipatia per il maledetto “gender” – che, ripeto, giuro che vuol dire “genere” in inglese, niente di più e niente di meno – altro non è che l’ennesima battaglia contro dei mulini a vento. Questo concetto è in realtà liberatorio e la sua introduzione andrebbe sostenuta e incentivata in quanto rende poco credibili categorie ed etichette che vorrebbero elevarsi a rango di leggi biologiche. La nostra identità di genere è nostra soltanto e dovremmo essere in grado di utilizzarla e modellarla a nostro piacimento, senza doverci necessariamente inserire in una o nell’altra categoria di genere. Perché voler vivere in un mondo stereotipato popolato da Action Men e Barbie quando l’umanità ha questa incredibile e meravigliosa inclinazione verso la diversità?



Per chi volesse saperne di più, Judith Butler ha scritto una pluralità di libri, non solo Gender Trouble, ma si tratta di letture perlopiù difficili se non persino ostiche. Nel caso in cui qualcuno volesse avere delucidazioni in merito ad aspetti specifici della sua filosofia, qualche matto ha creato questa pagina (in inglese) che spiega delle sue teorie tramite gattini. Ah, che bello l’internet!

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