lunedì 29 settembre 2014

L'inferno del ricordo - Diario di un individuo ordinario

Dopo aver riflettuto a lungo, mi son deciso a pubblicare qui dei brani tratti dal mio secondo racconto dal titolo "L'inferno del ricordo - Diario di un individuo ordinario". Il motivo principale che mi spinge a non pubblicare il racconto per intero è la sua lunghezza (16 pagine). Spero che qualcuno lo trovi perlomeno interessante e, come sempre, rimango aperto a critiche e pareri contrastanti.

[Egon Schiele, Selbstseher oder Tod und Mann

L'inferno del ricordo
Diario di un individuo ordinario

di Luca Pinelli

19 agosto 2014

Sinossi: Andrea è il protagonista nonché narratore del racconto ed alterna alle sue pagine di diario le sue giornate del presente. La sua vita si trascina tra ricordo e azione, tra Melissa, ragazza del suo passato, ed Eleonora, ragazza del suo presente, che si offre a lui come un modo per liberarsi del peso che porta da quando la prima l'ha dovuto abbandonare. Le tematiche principali del racconto sono il ricordo e il contrasto fra natura e società.

Brano 1
Era un giovedì, quello strano giorno della settimana in cui la tua testa inizia già a prepararsi al week-end senza che tu possa davvero farci molto. Inizi a capire che anche quella settimana se ne sta andando via, sta svanendo in quell'oscuro spazio della nostra mente dove anche i giorni più insignificanti vengono in qualche modo memorizzati, ma in forma compressa. Ero lì, sotto al mio salice, che in fondo stava diventando un po' anche suo, ad aspettare Eleonora. L'autunno soffiava sul parco, portandone via le prime foglie più deboli. Il mio sguardo si posava sulle nuvole, rapide e passeggere, lasciandosi trasportare dal dolce vento autunnale del cambiamento. I colori stavano iniziando a cambiare. Il verde dell'estate si approssimava all'arancio, al rossastro, al giallo e in parte anche al marrone. Tutto era mutevole nella sua permanenza, proprio come le foglie che si rivestivano di colori nuovi per poi abbandonare la loro casa per posti e tempi nuovi. Spesso si posavano sull'enorme prato inglese davanti a me, un'enorme distesa di verde brillante. Ogni anno, l'autunno mi convinceva che qualcosa, nel mondo, si stava muovendo, mi esortava in parte a cambiare le mie foglie, mi convinceva che forse valeva la pena di non attrezzarsi per l'inverno, di lasciarsi avvolgere dal suo gelo e dalla sua opacità, sicuro in qualche modo che tutto ciò mi avrebbe scalfito ma mai sconfitto definitivamente. Lasciarsi scrivere dalle stagioni, questo era il mio desiderio a volte. Come se ogni stagione, nella sua straordinaria unicità, sapesse comunicare qualcosa di irripetibile, ineffabile, e forse persino incomprensibile. Per questo motivo mi piaceva quel parco. Era un microcosmo del cambiamento che sentivo stava attraversando la mia vita. E ad ogni passo, lasciava un segno, un'impronta, spesso camuffata, avvolta in spessi strati di straordinaria quotidianità. Una volta attraversata una nuova fase, tuttavia, ero in grado di riconoscerla, quella tacca lasciata sulla mia persona. Inizialmente ne sorridevo, forse me ne vergognavo un po', perché in fondo tutto era successo senza che io potessi accorgermene, ma magari gli altri l'avevano notato; quasi come se inavvertitamente ti spogliassi pian piano del tuo solito fogliame e gli altri si accorgessero, prima o poi, di essere circondati delle tue foglie e ti guardassero con sguardo tra il disorientato e lo scandalizzato mentre tu cerchi di coprirti come meglio puoi. E in quel momento, cerchi di convincere te stesso e tutti coloro che ti circondano che in fondo il cambiamento non appartiene al mondo umano, che non c'è mai nulla di nuovo sotto il sole, che la vita è fatta di un ciclo manicheo di distruzione e ricostruzione. Quello che è è sempre stato e sempre sarà. Quella sorta di continuum temporale ti conforta un po', è proprio ciò con cui cerchi disperatamente di coprirti mentre le tue foglie cambiano colore e pian piano ti abbandonano. Ma il tentativo è sempre vano. Il vento autunnale del cambiamento soffia anche su di te, che tu lo voglia accettare o meno.
In fondo, il mio tentativo consisteva precisamente nel cercare di coprirmi dal cambiamento attraverso le grandi fronde di quel salice, come se fosse già cambiato troppo nella mia vita e non fossi più disposto ad abbandonare queste vesti per delle nuove. Come se mi fossi immedesimato così tanto nella mia maschera, nel mio personaggio, da non volerli più abbandonare, da confonderli con la mia mutevole personalità. Come se le mie esperienze fossero state così univoche da condurmi su questo preciso cammino e non su un altro, come se mi avessero marchiato per sempre, come se le mie cicatrici non potessero più consentirmi di dimenticare, di cambiare, di vivere in modo diverso, chissà, magari anche in un modo migliore. Mi sentivo proprio come un terremotato che dopo aver subito diverse scosse non sa più camminare sulla terra ferma e cerca disperatamente di rifugiarsi in un posto sicuro, immobile, senza potersi più spostare.
[...]
Così tutto iniziò, così sguainai la mia spada contro i demoni del mio passato, pronto ad affrontarli, incitato da una compagna di avventure che si prospettava essere tanto fedele quanto simile a me. Da quel giorno, il vento autunnale del cambiamento tornò a soffiare nella mia vita. E io, per la prima volta, ero disposto ad uscire allo scoperto.

Brano 2
È incredibile quanto plasmiamo e al contempo veniamo plasmati da tutto ciò che ci circonda. Proiettiamo al di fuori di noi ciò che ci è più caro e al tempo stesso introiettiamo tutto ciò che esiste indipendentemente da noi. Facciamo nostro ciò che non lo è, rendiamo altrui ciò che invece riguarda le pieghe più recondite della nostra mente. L'autunno diventa sinonimo di cambiamento, la primavera di rinascita, l'inverno di dolore. Altre volte, invece, l'autunno viene a rappresentare il fallimento, la primavera l'indifferenza della natura alla sofferenza umana, l'inverno diviene sinonimo di candore e della gioia più profonda.
Due anni fa, la neve e il gelo di gennaio si caricarono di sentimenti estremamente positivi che stavo provando in quel periodo della mia vita. C'era una profonda dicotomia tra ciò che avveniva nella mia vita e ciò che invece succedeva al di fuori di essa. Mentre la gente pativa il freddo e doveva gestire come meglio poteva la grande quantità di neve che si accumulava nei propri giardini, sulle strade e sugli edifici, io scoprivo per la prima volta la grande gioia dell'amore e della perfetta corrispondenza tra me e Melissa. Con la primavera, la storia iniziò a complicarsi, mentre gli uccelli recuperavano le loro doti canore e rispolveravano il loro repertorio musicale. Il gelido inverno passato era ora dentro di me, mentre intorno a me la natura si destava con nuovi ritmi e colori. La natura, quell'anno, fu indifferente alla mia esistenza. Mentre la società ci guardava con disapprovazione, la natura non poneva ostacoli alla fioritura del nostro amore.
Oggigiorno, la natura e l'individuo sono ben discernibili, ma l'individuo è inscindibilmente legato alla società, che lui lo desideri o meno. Qualsiasi nostra azione ha un qualche impatto su tutti coloro che ci circondano. Il bene della comunità dipende da ciò che ognuno dei suoi membri compie e come egli contribuisce alla causa comune. Gli eventi e le catastrofi naturali, invece, si verificano senza che l'uomo possa effettivamente parteciparvi, ma hanno un profondo impatto su tutto ciò che egli ha costruito col tempo. Le inondazioni ci impediscono di farci una passeggiata per i campi, la neve crea ritardi ed ostruisce la nostra routine; quello che noi facciamo in questi casi è semplicemente trovare delle alternative, dei percorsi che ci tocca rispolverare per evitare quei limiti impostici dalla natura e dal suo inevitabile corso.
La società si sta avvicinando alla natura, sta assumendo la sua indifferenza e la sua crudeltà. Sempre più spesso, la gente addita in lontananza ciò che va contro le norme sociali come un qualcosa che va contro le leggi naturali e fisiche. La società, nonostante il suo carattere contrastante con la natura, si sta facendo portatrice di valori e norme che si vogliono elevare al rango di leggi naturali. Il Creonte di oggi non impone leggi personali, che danno voce alla sua particolare prospettiva, ma si fa portavoce delle grandi consuetudini sociali, quelle leggi non scritte che tutti rispettano con reverenza. E oggi ancora di più di ieri, Antigone è destinata a fallire, perché l'individuo non può nulla contro la società. Il gruppo di cui facciamo parte può benissimo fare a meno di un minuscolo ingranaggio, può assumere forme e funzioni diverse a seconda di chi desidera farne parte. La società, al giorno d'oggi, è un'interminabile marcia che calpesta crudelmente chiunque stramazzi a terra per la fatica o chiunque cerchi di discostarsene. Senza l'individuo, la società continua a marciare; senza la società, l'individuo è destinato ad essere annientato dai regolari, energici passi di coloro che accettano passivamente di farne parte. La corrente della società, al contempo madre e boia dell'individuo, travolge la singolarità degli individui e li sospinge in avanti, verso parti diverse della stessa riva. Così, noi, da individui, ci crediamo singoli ma siamo in realtà il prodotto delle forze sociali che ci circondano; ci pensiamo liberi nelle nostre scelte e nei nostri obiettivi, ma dobbiamo in realtà sottostare ai mezzi coercitivi della società di cui facciamo necessariamente parte; siamo esseri incapaci di nuotare controcorrente, perché l'altro in fin dei conti ci appartiene più di quanto siamo disposti ad accettare. Nella società troviamo le nostre ambizioni, troviamo qualcosa verso cui rivolgere i nostri sforzi; senza di essa, siamo arcieri senza bersagli, che scagliano frecce in tutte le direzioni nella speranza di colpire qualcosa. Il nostro potenziale come esseri umani rimane inutilizzato ed inesplorato, per il nostro sviluppo abbisogniamo dell'altro, del diverso, dell'alieno. Qualcuno o qualcosa da osservare, da rispettare, da temere, questa è l'esigenza tipicamente umana. E io, in fondo, non sono tanto diverso da tutti gli altri.

Brano 3
Ciao, volevo scusarmi per l'altro giorno. Ti sono grato per tutto il tempo che mi stai dedicando, ma credo di non meritarlo nemmeno. Il fatto è che davvero a volte credo ci sia qualcosa di sbagliato in me, qualche parte mancante o in più, qualcosa che mi impedisce di condurre un'esistenza serena. È come se la mia testa dovesse necessariamente continuare a produrre pensieri e discorsi senza che io possa farci nulla. Di giorno parlo con me stesso per dar voce a tutto ciò che ho dentro, ma poi di fronte ad altre persone rimango muto e tutto ciò che si vede da fuori è una facciata vuota, incolore, spoglia. Fisso l'orizzonte, deludo costantemente chiunque si avvicini a me. Sono inadatto a vivere.
Quindi mi scuso con te, Eleonora, per averti fatto perdere tutto questo tempo. Ci ho provato, mi sono aperto, ti ho lasciato vedere una parte di me, ho permesso ai ricordi di affiorare, ma tutto ciò mi ha riportato sul vecchio sentiero bagnato di sangue. Non voglio rivivere tutto questo, vorrei poter bruciare i ricordi proprio come carta. Vorrei potermi far cancellare la memoria di quei posti, del suo viso, della sua bellezza, dei nostri momenti migliori. Vorrei svegliarmi con la consapevolezza di aver completamente cancellato il suono della sua voce dalla mia testa, mentre in realtà è ancora quella che mi sveglia ogni mattina e che culla i miei demoni di notte. Le parole stentano a descrivere ciò che provo, come sempre. Nel tentativo di dar voce a ciò che ho dentro fallisco, non riesco a comprendere l'ineffabile oscurità che attanaglia la mia mente. Nulla di tutto ciò è intenzionale né tantomeno me ne compiaccio. È una lotta strenua ed interminabile la mia, quella contro Melissa ed il ricordo di lei. Sono costretto a convivere con il suo lascito ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della mia triste vita solitaria. Vorrei anche solo poter intravedere in lontananza un'uscita, una luce, qualcosa che possa guidarmi verso un futuro privo del suo profumo e della sua bellezza. Purtroppo rimango intrappolato in un inferno atroce e straziante, dove le fiamme del ricordo mi circondano e mi divorano la carne minuto dopo minuto. L'enfer, c'est le Souvenir
Con questa citazione rivisitata ti lascio crogiolare nella bellezza di questa panchina fuori dal tempo e dalla società, nella speranza che tu apprezzi il mio tentativo di renderti partecipe dei miei problemi. So che Sartre ti è caro, quindi spero che apprezzerai anche il mio tentativo di plasmare la citazione e adattarla alla mia storia. Mi dispiaccio della mia incapacità di recepire altre informazioni riguardo a te e ai tuoi problemi e, ancora una volta, mi confermo come un inetto narcisista sordo a tutto ciò che è altro rispetto al suo ego. Per te varrebbe la pena di essere diverso, meriti molto di più di quanto io sia in grado di offrirti. Le mie più umili scuse per tutta questa brutta esperienza.
Tuo per sempre,
Andrea

Brano 4
Sono le 5 del mattino e le tenebre stanno abbandonando questi posti per far spazio alla vita.
Vengo da una notte insonne, passata a rigirarmi nel letto, ad abbracciare il vuoto dell'assenza. All'assenza di Melissa, di Eleonora, di un compagno di viaggio, di qualcuno che possa ascoltarmi, capirmi, permettermi di comprendere il nulla che sento zampillare dentro di me. Sono solo. Solo, contro il tempo, contro il passato e il ricordo, il lascito che ogni persona ha lasciato in me. Le persone che ho abbandonato o da cui sono stato abbandonato sono sempre con me, dentro di me, mi parlano nei miei sogni migliori e nei miei incubi ricorrenti, si lamentano dei miei capricci, del mio affogare in questa desolazione che mi circonda. Mi indicano città diroccate, campi arsi dall'insopportabile calore di agosto, bestie feroci che digrignano i denti e mi osservano con sguardo assassino. Mi fanno notare gli avvoltoi che volano sopra alla mia testa, pronti a saziarsi della mia carne imputridita. Puntano il dito, mi fanno notare gli alberi spogli, fragili, ridicoli. Mettono in evidenza la mia disarmante piccolezza di fronte al mondo, ai grandi eventi che hanno luogo tutto intorno a me. Mi permettono di notare quanto sono minuscolo davanti alla volta celeste, davanti alla grande bellezza che mi colpisce frequentemente. Quella stessa grande bellezza che mi trascina in questa triste vita scevra di fede e speranza.
La luce compare all'orizzonte, richiama l'attenzione su di sé, ancora una volta mi avvolge, abbraccia l'orizzonte intero, poi piano piano si sparge su per il cielo e giù per la terra, finché io non mi ritrovo scoperto, illuminato, senza alcuna protezione. Mi sento spoglio, nudo, futile. Il sole sorge, splende, i raggi colpiscono la mia pelle, entrano nelle mie palpebre, in ogni mia cavità, la luce mi riempie di sé. Mi sento violato, abusato. I miei demoni, la mia oscurità si ritrae timidamente, schiva. Il mio corpo la avvolge, la protegge, la ripara da tutto ciò che può rischiare di urtarla, di dissipare le tenebre che non smettono di annebbiare la mia persona. Il calore, la luce mi infastidiscono, mi ritraggo anch'io, insieme alla mia oscurità, mi rinchiudo nel mio inferno del ricordo, in parte compiaciuto, in parte dolente. Perdo la parola, le frasi perdono di significato al di fuori di me e nulla riesce a trattenermi dalla disperazione. Affogo in questo oceano di ricordi, di lasciti, di persone assenti ma pur sempre presenti; cerco disperatamente uno scoglio, un'ancora, una barca in lontananza a cui io possa affidare la mia salvezza. Presto, però, capisco che l'appiglio che ho trovato non potrà durare molto, che dovrò nuovamente issare le vele per poi rigettarmi in questo oceano di deludenti illusioni. Mi convinco che questa persona sia diversa, che saprà comprendermi, che non ci sarà nemmeno bisogno di iniziare a parlare dei miei mille problemi perché capirà, intenderà ciò che provo senza che io debba parafrasare le strazianti emozioni che mi divorano minuto dopo minuto. Tento, fallisco, soffro. Ogni volta le stesse fasi, ogni volta dolori nuovi ma in fondo familiari, ogni volta gli stessi lividi ma in parti diverse del corpo.
Questa è una nuova alba, l'inizio di un nuovo giorno, una luce più brillante di quella passata, ma io non trovo la forza, mi accascio a terra, mi manca il respiro, sul mio petto il peso straziante di un bue massacrato a colpi di manganello e di pugnale. Zampilli di sangue, muggiti di sofferenza, dolori lancinanti e il macabro spettacolo della morte di una bestia da macello. Rimango paralizzato di fronte a tanta atrocità, schiacciato dal peso di tutto ciò che ho dentro, di tutti coloro che fanno ormai parte di me. Vorrei bruciare questi ricordi come carta, sfogliarli, sentirli miei di nuovo per poi abbandonarli per sempre. Vorrei saper cancellare alcune persone da me, tutti i ricordi a loro collegati, tutte le esperienze condivise, le emozioni sottaciute ma provate nel profondo. Vorrei liberarmi di questa soffocante presenza dentro di me che cerca di annientarmi, che dà voce ai miei impulsi autodistruttivi, che mi spinge sul ciglio del baratro e mi abbandona al vento tagliente che da un momento all'altro potrebbe gettarmi sopra a dei macigni appuntiti. Vorrei non dover portare costantemente nella mia bocca l'amaro sapore della morte e del nulla. Vorrei riempire tutto di sensi e colori miei. E invece, mi ritrovo a dover convivere con le solite, deludenti illusioni, con i miei mondi immaginari dove la felicità è a portata di mano, dove la vita fluisce naturalmente e io riesco ad assaporarla minuto per minuto.
Questo mondo facile non mi appartiene, sono destinato a percepire tutto ciò che supera questa concezione banale e semplicistica della vita. La mia esistenza non può essere considerata un susseguirsi interminabile di momenti effimeri, no, la mia esistenza si compone di momenti che in continuazione rimandano ad altro, a qualcosa di passato, ai miei trascorsi, alle mie esperienze. Ogni momento riassume tutto ciò che ho provato, risciacqua le mie ferite mal richiuse con acqua salata, mi ricorda costantemente tutto ciò a cui quel momento può rimandare. In me vivono dieci, cento, mille altri me, passati e presenti. Ognuno di loro vuole far sentire la propria voce e sovrastare quella degli altri. Sono un enorme conglomerato di diverse personalità che convivono l'una con l'altra, che lottano per riaffiorare, per sopravvivere, per poter continuare a vivere in un tempo che non è più il loro. E io, di fronte a questa alba e questo nuovo giorno, non posso far altro che rassegnarmi al mio destino di persona lacerata e logorata da mille altre. Pian piano, mi trascino verso il letto con occhi rigonfi di lacrime, mi accascio tra le coperte usurate ed accetto, rassegnato, la mia sensibilità ed il mio interminabile pensare.

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Mi permetto di non pubblicare il finale e di lasciare il racconto incompleto. Se qualcuno fosse interessato ad avere il racconto per intero non esiti a contattarmi e farò in modo di mandarglielo.

domenica 17 agosto 2014

"La Grande Bellezza" di Paolo Sorrentino


In un certo senso ho sempre saputo che prima o poi mi sarei ritrovato a scrivere un post su La Grande Bellezza, un film di Paolo Sorrentino che ha vinto l'Oscar come miglior film straniero e che in Italia è presto diventato un argomento estremamente controverso. Innumerevoli sono i detrattori, in particolar modo tra coloro i quali, ovviamente, si sono accontentati di vederlo su Canale 5 solamente in seguito all'Oscar. La scelta di guardare un film complesso, quasi letterario, in un certo senso anche lento e di difficile comprensione (almeno alla prima visione) su un canale che lo trasmette interrompendolo ogni mezz'ora per far spazio alla pubblicità è, a mio avviso, alquanto opinabile. Per quanto mi riguarda, l'ho guardato diverse volte perché, nonostante alla prima visione ci avessi capito davvero poco o nulla, in seguito sono riuscito ad addentrarmi meglio nel fitto sistema di personaggi e scene che Sorrentino è in grado di dipingere. Ho voluto anche leggere e guardare qualche recensione online e questo non ha fatto altro che suscitare davvero tanta rabbia e tanto imbarazzo in me, dato che la gente a quanto pare ha sviluppato un'avversione piuttosto insensata verso tutto ciò che non è di immediata comprensione. Ho pure trovato il video di un giovane che si definisce "NON critico" e che sostiene, in modo decisamente poco convincente, che l'arte debba essere immediata perché, parafrasando, se vedi un tramonto ti piace a prescindere dal fatto che tu abbia determinate conoscenze. Magari qualcuno, in un futuro, si prenderà la briga di spiegargli che il tramonto non ha nulla a che fare con l'arte né tantomeno con i critici d'arte. Tanto per sfatare il mito, i critici d'arte in genere non sono quei demoni che trovano interessanti quadri o libri di dubbio gusto e che sanno cavar fuori teorie estremamente complesse da un quadro bianco o da un film insensato. Se davvero esistono degli esemplari simili, questi sono l'eccezione e non la regola. Chi davvero si occupa di critica, sia essa letteraria, cinematografica o artistica in genere, lo fa in modo sensato. E ve lo posso assicurare. Ciò che si legge su internet non è critica d'arte, la vera critica è accessibile solo tramite alcuni siti che non sono aperti a tutti, quindi io personalmente trovo il video linkato sopra e in particolar modo chi ha avuto il coraggio di pubblicarlo una persona di una pochezza disarmante. L'arte non è sempre immediata, ciò che si propone come immediato è pura propaganda o pubblicità, che con l'arte ha poco a che fare. La bellezza, che con l'arte ha a che fare in modo trasversale, è tutto un altro discorso ed è un discorso che il film, a mio avviso, affronta in modo esemplare.

Lungi da me essere un critico d'arte e tantomeno cinematografico, l'unico vantaggio che sento di poter vantare su gente simile è quello di aver guardato il film diverse volte e di averlo osservato attentamente. Non posso considerarmi un esperto di cinematografia, ma trovo che anche alcune tecniche utilizzate da Sorrentino e la sua squadra siano degne di lode. Per il resto, mi esimo da qualsivoglia commento tecnico del film. Ciò che mi preme invece esprimere è una serie di considerazioni personali che come tali vanno trattate.

Tanto per ingranare e riportare un altro parere, questa volta più autorevole, ho trovato interessante un'osservazione avanzata dal giornalista Marco Travaglio su La7. Ne riporto qui le parole.
"Altri, politici e giornalisti al seguito, hanno scambiato il film per un inno alla gioia, all'ottimismo, al rinascimento dell'Italia e di Roma. In realtà, il film è bellissimo, ma è un film molto pessimista, che dipinge l'Italia come una splendida necropoli dove le uniche cose belle risalgono a sei, sette secoli fa, opera di artisti morti e sepolti, comunque molto più vivi di quelli che oggi si credono vivi. I protagonisti sono uno scrittore che non scrive, pensatori che non pensano, poeti muti, giornalisti nani, chirurghi da botulino, cardinali che non sanno nulla di Dio ma tutto di culinaria, mafiosi 2.0 che sembrano sempre delle brave persone e politici inesistenti nel senso che nel film non esistono proprio. Uno splendido referto medico legale della vuota inutilità in cui è precipitata l'Italia con la sua classe dirigente."
Durante lo stesso intervento, Travaglio riporta infatti diversi pareri di politici che hanno visto il film come un omaggio all'Italia e a Roma, quando, in realtà, La Grande Bellezza si presenta piuttosto come un film di aspra critica sociale. In effetti, il film è anche molto di più di questo ed è per questo che lo apprezzo molto.

Facendo un passo alla volta, il primo grande scoglio da superare in questo film, a mio avviso, è la comprensione della trama e delle varie vicende che si sviluppano e si intrecciano per tutta la durata del film. Le scene e i personaggi potrebbero inizialmente apparire quasi scollegati e lo svolgimento dell'azione potrebbe apparire estremamente lento e pesante. Tuttavia, ritengo che ogni singola scena possa essere apprezzata sia tecnicamente che, per così dire, tematicamente, poiché trovo che l'utilizzo dell'editing molte volte sia eccezionale o perlomeno interessante. Gli esempi che mi vengono in mente sono due. Prima di tutto, quando Lorena, la showgirl ultracinquantenne, dopo una festa a casa di Jep, si tocca il sangue che le sta uscendo dal naso per via dell'(ab)uso di cocaina ed osserva il cielo, lì compaiono diverse scie di aerei che rimandano palesemente alle strisce di cocaina. Un esempio ancora più interessante viene poi offerto da Jep, che osserva il soffitto e ci vede il mare dopo aver saputo della morte del suo primo amore, Elisa, personaggio che ricompare qua e là durante il film nella memoria del protagonista in quanto rappresenta, a modo suo, la 'grande bellezza' della prima esperienza sessuale. Ad attraversare obliquamente quel mare fittizio è una barca in un ricordo ricollegato ai suoi giorni con Elisa. La ragazza, da parte sua, indossa esattamente lo stesso costume che lui ha intravisto in una foto a casa sua poco prima mentre parlava con suo marito, creando un collegamento anche attraverso quello che in termini tecnici si chiama mise en scène. Questo edificio che Sorrentino costruisce per rievocare un ricordo provocato da una foto è estremamente interessante e l'effetto viene raggiunto in modo estremamente abile. Ovviamente, tutto ciò potrebbe sfuggire a chi guarda il film per la prima volta, proprio come in molte altre scene del film. È per questo motivo che ritengo che La Grande Bellezza sia un film da degustare, da riguardare e soprattutto da osservare attentamente, perché pullula di rimandi impliciti e non.

Ciò che appare come tema dominante del film è la critica ad una Roma che affatica chiunque ci abiti, con il suo caos, le sue feste insensate e prive di limiti morali. Ad abitarla, come fa notare Travaglio nel commento sopra riportato, sono persone dalla dubbia moralità, quasi degli inetti, personaggi incapaci di abbandonare l'imbarazzante mondanità che li circonda e anzi pronti a lasciarsi travolgere da feste stravaganti, quasi surreali. Sorrentino, insomma, propone l'immagine di una Roma, e, per estensione, di un'Italia, che vive sulla gloria del passato, sulle grandi opere d'arte e i monumenti mozzafiato che già dall'inizio del film provocano una forte sindrome di Stendhal in un turista giapponese, che pare morire sul colpo. Questa sindrome pare essere la sindrome del film nella sua interezza, poiché, in fin dei conti, come il titolo stesso suggerisce, tutto ruota intorno alla Grande Bellezza non solo di Roma, ma della vita in genere. Si tratta di quella bellezza che travolge Jep nel ricordare la sua prima esperienza sessuale, tant'è che inizialmente, quando Ramona gli chiede di raccontarle la sua prima volta, lui non riesce ad articolare ciò che Elisa gli aveva detto al faro quella notte e si interrompe, gettando la sua interlocutrice nell'imbarazzo e spingendola a voler tornare a casa. Si tratta di quell'emozione intensa che travolge Jep Gambardella e tutti coloro che, come lui, sono "destinati alla sensibilità". Questa Grande Bellezza, rappresentata, nel concreto, dalla grande bellezza di Roma come città — e non come gente —, è in netto contrasto con la vita scevra di qualsivoglia morale nella quale tutti i personaggi precipitano tristemente in diverse parti del film, quella delle feste sregolate, dell'abuso di cocaina e della musica che buca i timpani. Questo contrasto emerge in particolar modo, ovviamente, nel protagonista stesso. Jep, infatti, ha scritto un grande romanzo, ma, come ripete più volte, è stato poi travolto dalla mondanità di Roma e non ha più avuto occasione di scrivere altro. Il suo lato sociale e festaiolo ha soffocato l'ispirazione artistica che lui ricerca per tutto il film. Questo contrasto, a mio avviso, diviene palese in occasione del funerale del figlio di una sua amica. Nella scena precedente, infatti, è Jep stesso a narrare al pubblico quali siano le convenzioni ai funerali visti come eventi prettamente mondani e sociali: avvicinarsi ai parenti, stringere loro le mani, toccare loro il braccio, sussurrare parole confortanti, poi allontanarsi, trovare un posto isolato ma al contempo ben visibile a tutti e contrarsi in espressioni sofferenti, ma mai piangere per non oscurare il dolore dei parenti del defunto. Nella scena del funerale, egli esegue alla perfezione questi comandi, ma, una volta riseduto, il parroco invita gli amici del defunto a trasportare la bara verso l'esterno e Jep, insieme ad altri tre suoi amici, si trova ad essere uno dei portantini. Nel momento in cui trasporta la bara, il protagonista cede però al pianto e va pertanto contro alle stesse regole che aveva esposto nella scena precedente e che aveva saputo eseguire alla perfezione fino a quel momento. Jep Gambardella, insomma, si conferma essere quello stesso ragazzo che alla domanda "Cosa ti piace di più, davvero, nella vita?" rispose "L'odore delle case dei vecchi" mentre tutti i suoi coetanei risposero "La fessa"; egli è destinato alla sensibilità e questo suo lato, per quanto sia celato sotto a quintali di marcia mondanità, non fatica a riaffiorare in determinate occasioni. Il protagonista, pertanto, è lacerato da questi due lati della sua personalità: da una parte, la facile vita mondana che lo travolge in continuazione e soffoca qualsivoglia tentativo di scrivere un altro romanzo; dall'altra, la sua inestinguibile capacità di meravigliarsi di tutto ciò che lo circonda, di avere dei moments of being, di dar voce a quel fanciullino pascoliano che è in lui. Questa sua duplicità rimane palese per tutto il film ed è, in ultima analisi, una delle tematiche principali della pellicola. Infatti, il film stesso ci invita a cogliere questi "sparuti, incostanti sprazzi di bellezza" a cui assistiamo qua e là durante la nostra misera esistenza e, in un certo senso, il film stesso potrebbe essere visto come il romanzo che Gep, alla fine del film, potrebbe scrivere. Insomma La Grande Bellezza è il risultato stesso delle vicende del protagonista, che riscopre la sua sensibilità, che la sente zampillare dentro di sé e che non può più resistere alla voce che, dentro di lui, lo invita a scrivere di queste esperienze. Il film/romanzo La Grande Bellezza è il prodotto della mente del protagonista che viene travolto, qua e là, dalla grande bellezza della vita. A supportare questa tesi è anche la forte presenza di un qualcosa di vagamente letterario, che fa pensare, a me personalmente, ad un romanzo piuttosto che ad un film. Checché se ne dica, La Grande Bellezza è uno di quei film che, in un certo senso, provengono da un romanzo, da una vicenda romanzata. Basti pensare, in questo senso, al monologo finale, che qui riporto.
"Finisce sempre così, con la morte. Prima, però, c'è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio e il sentimento, l'emozione e la paura. Gli sparuti, incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l'uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell'imbarazzo dello stare al mondo. Bla bla bla bla. Altrove c'è l'altrove. Io non mi occupo dell'altrove, dunque che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco."
In altre parole, la frase centrale, evidenziata in grassetto, riassumerebbe il senso del film intero. La vita, così propone Sorrentino, è un continuo oscillare tra momenti di assoluta bellezza da una parte e la mediocrità, lo squallore, l'uomo miserabile ed inetto dall'altra. Questa dualità viene messa in evidenza sin dai primissimi minuti del film, dove veniamo introdotti in una Roma deserta, silenziosa, una Roma che risplende in tutta la sua bellezza e la cui aria risuona di cori quasi angelici. In un momento successivo, tuttavia, questa atmosfera carica di emozioni viene squarciata dall'urlo quasi inumano di una donna che si trova alla festa di compleanno di Jep, il che ci introduce al secondo momento, quello dello "squallore disgraziato" e de "l'uomo miserabile". La sfida prettamente umana, aggiungo io, è saper cogliere questi momenti di meraviglia, dare loro spazio, saperli apprezzare in toto. Allo stesso tempo, però, questa visione è quella di una persona "destinata alla sensibilità", una persona ricettiva, che sa osservare la bellezza della vita ed apprezzarla; si tratta pertanto di un modo di vivere che non può appartenere a tutti. In altre parole, è uno dei tanti filtri attraverso i quali la vita può essere osservata e colta.

Questo viene confermato nel film proprio da coloro i quali questo ambiguo comportamento della vita non riescono proprio a percepirlo. Tralasciando personaggi secondari dove si palesa chiaramente questa incapacità di cogliere la cosiddetta Grande Bellezza, come quel giovane che sostiene, in risposta ad una modella cocainomane che ora si improvvisa intellettuale, che il suo scrittore preferito sia Marcel Proust, ma anche Ammaniti, o come la modella stessa, che sostiene di starsi dedicando ad un romanzo in qualche modo proustiano, o ancora come l'amica di Jep che sostiene che l'unica scena jazz interessante al momento sia quella etiope. Si tratta, in questi come in tanti altri casi, di personaggi che cercano disperatamente di elevarsi a rango di individui interessanti, in qualche modo si aprono all'arte, desiderano, non senza affettazione, che gli altri riconoscano che il loro interesse per l'arte sia genuino e ricercato, che abbiano gusti raffinati, che sappiano apprezzare anche autori ed artisti di nicchia. Insomma la loro ricerca diventa unicamente un modo per ottenere quel riconoscimento che, all'interno di quella mondanità logora ed usurata, può permettere loro di mantenere un po' di amor di sé proprio attraverso l'amore degli altri. È proprio all'interno di questo contesto che nascono quei finti critici d'arte che il ragazzo del video condanna, ma dobbiamo sempre ricordare che nessuno di loro è veramente un critico d'arte né potrebbe mai esserlo proprio in vista di questo tentativo disperato, quasi ossessivo, di ostentare una certa raffinatezza. Ed è il film stesso a smontare questi personaggi nel momento stesso in cui ce li presenta, poiché lo spettatore rimane indispettito e riesce automaticamente a trarre le sue conclusioni riguardo a questi personaggi da condannare. Ogni inetto viene smantellato nel momento stesso in cui viene presentato come tale, proprio come quella presunta artista che Jep è costretto ad intervistare all'inizio del film o come la sua amica Stefania, la quale sostiene di "grondare di vocazione civile". Ognuno di questi personaggi vive nelle sue illusioni, nelle sue menzogne, in quei mondi paralleli pieni di ego e di sicurezza che permettono loro di trascinarsi lentamente verso la fine della loro miserabile vita.

Un personaggio che ho trovato in qualche modo interessante, pur appartenendo, in un certo senso, a questo universo di inetti, è Ramona. Jep inizia a conoscerla dopo il suo spogliarello all'interno del locale di un suo amico. Si tratta di una donna adulta, se non di mezza età, che si ostina a mostrare il suo corpo per lavorare, come mette in evidenza fin da subito suo padre. Tutti i soldi che guadagna, e questo lo scopriremo alla fine della sua vita, dice di spenderli per "curarsi". L'ambiguità è palese ed è un'ambiguità che io personalmente ho trovato affascinante. Ramona si cura da una malattia o si rende bella per poter continuare a praticare la sua professione di spogliarellista? Davanti a questo interrogativo, lo spettatore si ritrova quasi spiazzato, ma viene subito indotto a pensare che la prima sia l'ipotesi più probabile, perché Ramona esce dalla scena in modo pacato e poco discusso. Tutto ciò che ci comunica la sua morte sono delle parole che appartengono ad uno sconosciuto e che vengono indirizzate al padre della donna mentre lo vediamo fumare sofferente e quasi disperato. La scena appena precedente, invece, vedeva Jep scendere in un bar a prendere qualcosa, la velocità è rallentata e le parole di una signora contribuiscono ad anticipare l'atmosfera di perdita ed abbandono che dominerà le scene successive.

Un altro personaggio interessante è poi quello interpretato da Carlo Verdone, Romano. Egli, infatti, è scrittore, mira a scrivere qualcosa di interessante e per tutto il film lo vediamo tentare disperatamente di ottenere il riconoscimento della modella cocainomane sopraccitata. Romano vive in un appartamento per studenti e uno dei momenti di Grande Bellezza proposti dal film avviene proprio all'interno del suo appartamento, dove due studenti universitari si baciano intensamente da giorni. Questa bellezza, tuttavia, non viene del tutto colta da Romano, il quale continua ad esercitarsi in freddi esercizi letterari quali scrivere una trasposizione teatrale di opere di D'Annunzio. Jep, infatti, gli consiglia caldamente di scrivere qualcosa di suo pugno, piuttosto di tentare di reinterpretare opere altrui. Questo invito viene accolto da Romano, il quale, in una delle ultime scene che lo vedono come personaggio, dà vita ad una performance teatrale interessante ed apprezzata, ovviamente da tutti tranne che dalla modella che lui insegue per tutto il film. Anche in lui, pertanto, può essere intravisto quell'inetto che non si rende conto esattamente di ciò che succede ed insegue vanamente obiettivi superficiali ed erronei, ma la differenza, qui, è sostanziale: Romano, infatti, se ne va, abbandona la grande duplicità di Roma per ritornare alle origini. Ciò che ha scritto ha saputo dargli una spinta, gli ha permesso di uscire da quella vita miserabile per darsi ad altro, a "l'altrove", come lo chiama Jep nel monologo finale.

Un ultimo degli innumerevoli spunti che il film propone è poi quello del cosiddetto "trucco". Si tratta di uno dei Leitmotive della pellicola, a mio avviso, in quanto dà voce, in un certo senso, all'aspetto realistico della scrittura e del raccontare in genere. Tutto ciò che io ho chiamato "vicenda romanzata", ossia la trama del film e il continuo rimando agli aspetti essenziali che lo compongono, vengono definiti "solo un trucco" nel monologo finale. Il raccontare si fa carico del nulla, di storie inventate ed inspiegabili, non per nulla viene citata più volte la famosa frase di Flaubert secondo cui la massima aspirazione di uno scrittore sia lo scrivere del nulla. Proprio come la giraffa che appare e scompare nel film, noi, come spettatori, ci troviamo davanti ad un semplice trucco, ad una magia, a qualcosa di razionalmente insondabile che però è in grado di comunicarci qualcosa, di stupirci e di meravigliarci. Allo stesso modo, la Grande Bellezza, l'ispirazione, la musa dello scrittore c'è e non c'è, appare e scompare, in un momento ci coinvolge e ci abbraccia e nel momento immediatamente successivo ci abbandona alla nostra misera e vacua esistenza umana. La vita, lo scrivere, il narrare, tutti questi sono dei trucchi, qualcosa di inspiegabile, di insondabile, di inenarrabile. Il film La Grande Bellezza, però, sa ripercorrere il filo che, dal romanzo terminato, ci riconduce all'ispirazione che l'ha partorito, Sorrentino sa guidarci sapientemente verso il significato e la razionalità che noi cerchiamo ostinatamente per tutto il film. La grandezza di questo film, quindi, risiede proprio in questo, secondo la mia modestissima opinione. E, proprio come è stato dimostrato da noi italiani, non è un film per tutti.

Questo, a mio avviso, è ciò di cui tratta il film, o meglio, come io ho interpretato ciò che il film propone. Mi son dovuto limitare ad esporre pochi concetti fondamentali poiché si tratta di un film estremamente denso ed interessante. Sono più che aperto a critiche ed osservazioni riguardo alle argomentazioni che ho cercato di presentare in modo logico e coerente e non intendo assolutamente avanzare la tesi che la mia chiave di lettura sia l'unica possibile. In fondo, il bello dell'arte in genere non è tanto la sua immediatezza, come sostengono alcuni, quanto piuttosto la possibilità di essere interpretata in modalità sempre differenti e, in alcuni casi, anche contrastanti. Sta a noi, come pubblico, lettori ed osservatori, cercare di cogliere le sfumature e gli indizi che l'autore ci fornisce per arrivare ad una comprensione almeno parziale dell'opera d'arte. Tutti coloro i quali si ritengono abbastanza abili da elevarsi al di sopra di determinati capolavori, a mio avviso, dovrebbero praticare un po' di umiltà, che male non fa, e almeno intravedere in lontananza la possibilità che esistano diversi gradi e livelli di comprensione e che non tutti siano accessibili a tutti. Se non si capisce un film alla prima visione, è cosa buona e giusta riguardarlo ed osservarlo, invece di sparare a zero e disdegnarlo come qualcosa di intellettualistico e vuoto. Citando nuovamente Travaglio,
"[...] La Grande Bellezza ha vinto l'Oscar come migliore film straniero, ma non straniero in America, straniero in Italia. Infatti, lo hanno capito in tutto il mondo tranne che qua. Qua ci siamo fermati al titolo." 

sabato 28 giugno 2014

La vita è troppo breve per imparare il tedesco

Studiando germanistica, mi viene spesso detto che il tedesco è una lingua troppo dura e difficile. Sicuramente un fondo di verità c'è. All'orecchio italiano dubito che ci siano troppe lingue che suonino particolarmente bene, eccezione fatta ovviamente per il francese o l'inglese britannico. Noi non ce ne accorgiamo semplicemente perché siamo abituati a sentire determinati suoni e melodie che alle orecchie di stranieri sono l'essenza del romanticismo e della passionalità.
Il tedesco è senza dubbio una lingua meno melodica dell'italiano. Ha suoni più aspri e duri, oltre a rievocare inevitabilmente il Nazismo o la Merkel. Io personalmente trovo che il tedesco abbia anche dei bei suoni, ma riesce difficile trasferirli attraverso una pagina virtuale. Per questo, mi limiterò a spiegare perché trovo una lingua come il  tedesco estremamente affascinante.
Il principio base del tedesco è che sostanzialmente tutte le parole possono essere unite alle altre per trasferire un'idea piuttosto che un'altra. Si tratta di una lingua estremamente flessibile nel suo lessico — contrariamente all'inglese, dove il vocabolario è molto ampio ma una parola suona bene solamente con poche altre — e estremamente inflessibile dal punto di vista grammaticale. Il problema maggiore sono i casi, che, pur essendo solamente quattro, combinati con tre generi diversi — maschile, femminile e neutro — e da diverse distinzioni danno vita a tre declinazioni degli aggettivi in base a ciò che li precedono. Insomma, se io volessi dire "i ragazzi felici" o "dei ragazzi felici", ci sarebbe una "n" a distinguere il primo "felici" dall'altro. Questo giusto per dare un'idea.
Per quanto riguarda la sintassi, i periodi possono essere molto lunghi e in genere lasciano in sospeso il verbo, cosa che per noi è assolutamente fuori da ogni logica. Paradossalmente, in tedesco diventa fondamentale ascoltare la fine di una frase più che il suo inizio, perché è lì che spesso si trova il verbo o i diversi verbi. In lingue come l'italiano, a volte non è nemmeno necessario terminare le frasi prima che il messaggio venga colto dal nostro interlocutore, quindi la distanza è senza dubbio grande.
Detto questo, il mio post si proponeva semplicemente di illustrare qualche esempio di come il tedesco crei delle parole che io trovo affascinanti. E non parlo solamente del fatto che i guanti in tedesco siano delle scarpe delle mani (die Hand = la mano; der Schuh = la scarpa; der Handschuh = il guanto) né del fatto che il frigorifero sia un armadio fresco (der Schrank = l'armadio; kühl = fresco; der Kühlschrank = il frigorifero). Vi propongo qui alcune parole tedesche che evocano delle splendide idee e che io reputo interessanti.

1. die Ellenbogengesellschaft (letteralmente, "la società dei gomiti")
Si tratta di un concetto che ha assunto una particolare rinomanza grazie a espressioni quali "homo homini lupus" o, per i fan di Hegel, "Regno Animale dello Spirito". È, sostanzialmente, il concetto che sta alla base dell'odierna società capitalistica, ossia quello di spietata concorrenza. In una "società dei gomiti", gli individui si fanno strada con i loro gomiti tra i loro simili affinché possano prevalere sulla massa. È un'idea che viene racchiusa in una parola unica in tedesco e che io trovo proprio per questo affascinante.

2. die Prinzipienreiterei (letteralmente, "la cavalleria dei principi" o "l'equitazione dei principi")
È una parola che ho scoperto leggendo Effi Briest di Theodor Fontane e che assume particolare rilievo all'interno dell'opera per descrivere uno dei personaggi principali, il Barone von Innstetten, marito della protagonista da cui prende il nome l'opera. La parola descrive un attaccamento quasi ossessivo ai principi propri o imposti dalla società, cosicché una persona non sia in grado di agire in base alle proprie idee ma si debba sempre rifare a delle norme o a delle convenzioni sociali. Nel caso del personaggio all'interno del romanzo, egli scopre che sua moglie l'ha tradito più di sei anni prima e si sente costretto, oltre che ad allontanare la moglie dalla famiglia, ad affrontare in duello il suo ormai ex rivale com'era convenzione per risolvere quei problemi a cui la legge dell'epoca non dava risposta.

3. das Fingerspitzengefühl (letteralmente, "il sentimento delle punte delle dita")
Questa parola esprime sostanzialmente ciò che noi chiamiamo savoir faire o in alcuni casi anche semplicemente tatto, ma trovo la parola tedesca molto più evocativa ed interessante rispetto a quelle che utilizziamo noi.

4. der Ohrwurm (letteralmente, "il verme dell'orecchio")
Questa parola potrebbe inizialmente evocare immagini piuttosto raccapriccianti, ma in linguaggio colloquiale indica quella canzone o hit che è molto orecchiabile e perciò entra in testa facilmente. Ancora una volta, il tedesco pare essere molto più metaforico ed evocativo di altre lingue.

5. das Fernweh (letteralmente, "dolore della distanza")
Sostanzialmente rappresenta una nostalgia di paesi lontani, anche se alcuni sostengono che descriva invece una nostalgia di paesi che non si sono mai visitati. Il Duden descrive questo termine come "Sehnsucht nach der Ferne, nach fernen Ländern", ossia come una "nostalgia della distanza, di paesi lontani", quindi mi fido della fonte autorevole e non gli do la sfumatura che molti tendono ad attribuirgli gratuitamente.

Concludo qui, nella speranza che queste parole siano interessanti almeno la metà di quanto lo sono per me. Nel frattempo, permettetemi di ripetere che
"Das Leben ist zu kurz, um Deutsch zu lernen."
"Life is too short to learn German."
"La vita è troppo breve per imparare il tedesco."
Ma per me vale pur sempre la pena di tentare.


giovedì 8 maggio 2014

Franz Kafka - Das Urteil

Non avendo a disposizione troppo tempo da dedicare alla scrittura del blog in questo periodo a causa del reinizio dei corsi e degli imminenti esami, ho pensato di proporre qua un'altra parte della mia tesina, ancora una volta nella speranza che serva effettivamente a qualcuno o che qualcuno trovi quanto ho da proporre interessante e stimolante. Questa è la penultima parte della tesina, la parte di tedesco, in cui analizzo, pur brevemente, un racconto di Kafka dal titolo La sentenza (Das Urteil, in tedesco). Essendo l'alienazione il tema trattato nella mia tesina, questo racconto mi sembrò un perfetto esempio letterario di quel processo che trovai allo stesso tempo interessante ed inquietante. Qui vi ripropongo la parte in tedesco seguita da una traduzione in italiano.




„Das Urteil“ (1912) – Franz Kafka

Zum Autor

Franz Kafka (3. Juli 1883 in Prag, Österreich-Ungarn – 3. Juni 1924 in Klosterneuburg-Kierling, Österreich) war ein deutschsprachiger Schrifsteller, der aus einer jüdischen Kaufmannsfamilie stammte. 1906 promovierte er in Jura und arbeitete seit 1908 bei einer Versicherungsanstalt in Prag. Er betrachtete aber diese Arbeit als Hindernis für seine Karriere und als bloß „Brotarbeit“. Sein Schaffen besteht aus drei Romanfragmenten („Der Prozess“, „Das Schloss“ und „Der Verschollene“) und aus unterschiedlichen Erzählungen.
Zu seinem Vater hatte Franz ein problematisches Verhältnis, weil er ihn grob behandelte und unterdrückte. Außerdem konnte die Mutter dieser Situation gegenüber nichts tun, um den Sohn zu schützen. Aus diesem Grund wird die Figur des Familienoberhauptes in Kafkas Werken als übermächtig und unterdrückend dargestellt.

Zusammenfassung des Textes
Es handelt sich um eine 1912 geschriebene Erzählung, die hauptsächlich und scheinbar von einem Vater-Sohn-Konfikt handelt.
Der Protagonist ist Georg Bendemann, ein junger Kaufmann, der an einem Sonntagvormittag einen Brief an seinen Freund schreibt, der sich in Petersburg befindet. Er erzählt ihm, wie glücklich er sich fühlt, weil er sich mit einer jungen Frau, Frieda Brandenfeld, verlobt hat. In diesem ersten Teil der Erzählung herrschen die Gedanken des Protagonisten vor, der diesen Brief am Fenster nachdenklich schreibt und über sein eigenes Leben und das seines Freundes überlegt. Er sagt aber, sein Freund sei sehr unzufrieden, weil sein Geschäft nicht erfolgreich sei und er dort keine Freunde habe. Aus diesem Grund will er ihm nicht sofort preisgeben, dass er bald heiraten wird, und er sagt ihm nicht, dass sein Geschäft im Gegensatz viel Erfolg hat.
Nachdem Georg den Brief geschrieben hat, geht er zu seinem Vater, der sich in einem hinteren Zimmer der Wohnung befindet. Seitdem die Mutter der Hauptfigur gestorben ist, ist sein lebender Elternteil krank und einsam und deshalb kümmert sich Georg um ihn. Der Vater, nachdem ihm Georg gesagt hat, dass er seinen Freund über seine Verlobung informiert hat, stellt dessen Existenz in Zweifel, obwohl er mit ihm mehrmals geredet hat. Darauf antwortet der Sohn, dass er sein Leben verändern muss, weil er zu wenig isst und immer in Dunkelheit lebt. Georg hilft ihm dann beim Ausziehen und legt ihn ins Bett. Plötzlich beginnt der alte Mann, die Rolle des Verrückten zu spielen. Er ärgert sich und schreit. Er sagt, dass Georg eine böse Person ist. Er gibt auch preis, dass er „Vertreter am Ort“ des Freundes ist und deshalb ihn über alles informiert hat, weil die zwei in Verbindung sind. Außerdem wirf der Vater Georg vor, sich der Leitung des Geschäftes angeeignet und eine nicht ehrenhafe Verlobte gewählt zu haben. Endlich verurteilt der alte Mann seinen Sohn „zum Tode des Ertrinkens“. Der Protagonist geht dann aus und lässt sich ins Wasser hinfallen.

Die progressive und totale Entfremdung des Protagonisten
In dieser Erzählung geht es nicht einfach um eine Konfiktlage zwischen einem Vater und seinem Sohn, sondern sie erforscht den vernichtenden Prozess der Entfremdung, die die Hauptfigur niederschlägt und unterdrückt.
Am Anfang erfährt der Leser von Georgs Gedanken und Gefühlen, während er den Brief schreibt und über sein Leben und das seines Freundes nachdenkt. In diesem Teil der Erzählung entdecken wir einige Tatsachen, die auch nachher behandelt werden, durch die Augen des Protagonisten: Er freut sich auf seine bevorstehende Heirat und fürchtet sich um seinen Freund, der hingegen kein glückliches Leben führt. Man kann sicherlich behaupten, dass seine Gefühle aufrichtig sind; als die Figur des Vaters die Szene betritt, geht aber diese aus Sicherheiten bestehende Welt zugrunde: Neben dem ersten Standpunkt erhebt sich ein zweiter, der als gegensätzlich gilt und den ersten schwanken lässt. Der Vater stellt nämlich in Frage, ob dieser in Russland wohnende Freund wirklich existiert, und deswegen ist der Leser von der Aufrichtigkeit von Georgs Gefühlen nicht mehr überzeugt. Der Zeitpunkt, in dem der Leser anfängt, sich vom Protagonisten zu distanzieren, entspricht die Entfremdung der Hauptfigur von sich selbst: Wie sich der Leser von Georgs Überzeugungen und Sicherheiten entfernt, beginnt auch dieser, seine eigene Welt in Zweifel zu stellen.
Hier entwickelt sich der Prozess der Entfremdung. Alles, was der Protagonist besitzt, wird von seinem Vater gewendet: Die Verlobte, die ihm aber noch nicht gehört, wird als eine nicht ehrenhafe junge Frau bezeichnet; Die Kundschaft, die Georg denkt zu haben, ist in Wirklichkeit seinem Vater treu; Endlich ist auch der Petersburger Freund in Verbindung zu ihm und er verlässt sich auf ihn. Ob das alles richtig ist, ist nicht wichtig zu berücksichtigen. Was hingegen wesentlich ist, wird durch die Beraubung der Individualität des Protagonisten dargestellt: Am Ende der Erzählung hat er nicht bloß die oben erwähnten Personen und Sicherheiten, sondern auch seinen eigenen Willen und seine persönlichen Eigenschafen verloren. Aus diesem Grund büßt er die Strafe ab, die ihm von seinem Vater zugeschoben wird: Er muss ertrinken.

Kafkas Welt: Der Name als Individualität
In Kafkas Werken spielen die Namen eine wichtige Rolle und diese Erzählung ist ein Beweis dafür.
Die einzigen Figuren, die einen Namen besitzen, sind der Protagonist Georg Bendemann und seine Verlobte Frieda Brandenfeld. Die zwei anderen werden hingegen durch ihr Verhältnis zur Hauptfigur bezeichnet: der Vater und der Freund. Das unterstreicht einerseits Georgs zentrale Lage in der Erzählung und andererseits kennzeichnet der Name die Personen, die eine eigene Konsistenz und Festigkeit besitzen. Wenn wir nämlich dieses Stück tiefer analysieren, können wir sehen, wie Georg, der Vater und der Freund dem gleichen Kreis gehören, weil diese letzten das Gegenteil beziehungsweise das gemeinsame Element mit dem ersten darstellen. Einerseits haben wir die drei Männer: Georg, den Vater, das heißt die Figur, die sich ihm entgegenstellt, und den Freund, der der gemeinsame Grund zwischen den beiden darstellt; Andererseits haben wir im Gegenteil Frieda Brandenfeld, die Verlobte, die Georg aber noch nicht gehört und deswegen ihre eigene Individualität behält. Mit anderen Worten zählen die drei Männer zur gleichen Figur, Georg Bendemann, die eine echte Person darstellt, während sich die junge Frau außerhalb dieses Kreises aufstellt und daher eine eigene Autonomie besitzt.



"La sentenza" (1912) - Franz Kafka
Sull'autore
Franz Kafka (3 luglio 1883 a Praga, Austria-Ungheria - 3 giugno 1924 a Klosterneuburg-Kierling, Austria) era uno scrittore di lingua tedesca proveniente da una famiglia di commercianti ebrei. Nel 1906 si laureò in giurisprudenza e lavorò dal 1908 presso un'agenzia di assicurazioni a Praga. Egli considerava però questo lavoro come un impedimento per la sua carriera e come semplice "lavoro per il pane". La sua opera consta di tre frammenti di romani ("Il processo", "Il castello" e "America") e di diversi racconti.
Kafka aveva un rapporto problematico con suo padre, poiché questo lo trattava male e lo opprimeva. Inoltre la madre, di fronte a questa situazione, non poteva far nulla per proteggere il figlio. Per questo motivo, la figura del capofamiglia all'interno delle opere di Kafka viene rappresentata come estremamente potente ed opprimente.

Riassunto del testo
Si tratta di un racconto del 1912 che principalmente e apparentemente tratta di un conflitto padre-figlio.
Il protagonista è Georg Bendemann, un giovane commerciante che una domenica mattina scrive una lettera al suo amico che si trova a San Pietroburgo. Egli gli racconta quanto si senta felice perché si è fidanzato ufficialmente con una giovane donna, Frieda Brandenfeld. In questa prima parte del racconto prendono il sopravvento i pensieri del protagonista, il quale scrive pensieroso questa lettera seduto alla finestra e riflette sulla propria vita e su quella dell'amico. Tuttavia, egli sostiene che il suo amico sia insoddisfatto poiché il suo negozio non ha molto successo e poiché non ha amici a San Pietroburgo. Per questo motivo, Georg non vuole comunicargli subito che si sposerà presto e non gli dice che il suo negozio invece va a gonfie vele.
Dopo aver scritto la lettera, Georg va da suo padre, il quale si trova in una stanza nel retro del suo appartamento. Da quando la madre del protagonista è morta, il genitore rimastogli è malato e solo e perciò Georg si occupa di lui. Il padre, dopo che Georg gli ha detto di aver informato l'amico del suo fidanzamento ufficiale, mette in dubbio l'esistenza di questo nonostante egli ci abbia parlato più volte. A questo il figlio risponde che egli deve cambiare la sua vita perché mangia troppo poco e vive nell'oscurità. Georg lo aiuta poi a spogliarsi e lo mette nel letto. Improvvisamente, il padre inizia a fare la parte del folle, arrabbiandosi e urlando. Sostiene che Georg sia una cattiva persona e gli comunica di essere il "rappresentante sul posto" dell'amico e di averlo informato di tutto poiché loro due sono in contatto. Inoltre, il padre rimprovera Georg per essersi appropriato della direzione del negozio e per aver scelto una fidanzata indegna. Alla fine, l'anziano condanna suo figlio alla "morte per annegamento". Così, il protagonista esce e si lascia cadere nell'acqua.

La progressiva e totale alienazione del protagonista
Questo racconto non verte semplicemente su un rapporto conflittuale tra padre e figlio, bensì esplora l'annichilente processo di alienazione che abbatte ed opprime il protagonista.
All'inizio, il lettore apprende dei pensieri e dei sentimenti di Georg mentre scrive la lettera e pensa alla sua vita e a quella del suo amico. In questa parte del racconto, scopriamo alcuni fatti, che verranno trattati anche successivamente, attraverso gli occhi del protagonista: egli si rallegra dell'imminente matrimonio e si preoccupa per l'amico, il quale conduce un'esistenza infelice. Si può sicuramente affermare che i suoi sentimenti sono sinceri; quando il personaggio del padre entra in scena, tuttavia, questo mondo di certezze va in rovina: accanto al primo punto di vista se ne eleva un secondo, che funge da opposto e che fa vacillare il primo. Il padre, infatti, mette in dubbio l'esistenza di questo amico che abita a San Pietroburgo e perciò anche il lettore non è più convinto della sincerità dei sentimenti di Georg. Al punto della storia in cui il lettore inizia a distanziarsi dal protagonista corrisponde anche l'alienazione di questo da se stesso: come il lettore si allontana dalle convinzioni e dalle sicurezze di Georg, anche questo inizia a mettere in dubbio il suo mondo.
Qui si sviluppa il processo di alienazione. Tutto ciò che il protagonista possiede viene capovolto dal padre: la fidanzata, che però non gli appartiene ancora, viene definita come una persona indegna; la clientela che Georg pensa di avere è in realtà fedele al padre; e infine anche l'amico di San Pietroburgo è in contatto con questo e si fida di lui. Non importa se tutto questo sia vero o no. Ciò che invece risulta essere essenziale è rappresentato dalla privazione dell'individualità del protagonista: alla fine del racconto, egli non ha perso solamente le persone e le sicurezze sopraccitate, ma anche la sua volontà e le sue caratteristiche personali. Per questo motivo sconta la pena che gli viene attribuita dal padre: deve affogare.

Il mondo di Kafka: il nome come forma di individualità
Nel mondo di Kafka i nomi giocano un ruolo importante e questo racconto è una prova di questo.
Gli unici personaggi a possedere un nome sono il protagonista Georg Bendemann e la sua fidanzata Frieda Brandenfeld. Gli altri due personaggi vengono invece definiti dal rapporto che hanno con il protagonista: il padre e l'amico. Questo, da una parte, sottolinea la posizione centrale occupata da Georg all'interno del racconto e dall'altra il nome contraddistingue quelle persone che possiedono una propria consistenza e solidità. Se analizziamo più approfonditamente quest'opera possiamo infatti notare che Georg, il padre e l'amico appartengono allo stesso 'cerchio', in quanto questi ultimi rappresentano rispettivamente l'opposto e l'elemento comune con il primo. Da una parte abbiamo i tre uomini: Georg, il padre, ossia il personaggio che gli si oppone, e l'amico, che rappresenta il terreno comune tra i due; dall'altra parte abbiamo invece Frieda Brandenfeld, la fidanzata, che però non appartiene ancora a Georg e che mantiene perciò una propria autonomia. In altre parole, i tre uomini fanno parte dello stesso personaggio, Georg Bendemann, che rappresenta una vera e propria persona, mentre la ragazza si colloca all'esterno di questo 'cerchio' e possiede perciò una propria autonomia.


Chiedo scusa per la pessima traduzione ma avendo poco tempo a disposizione e potendo disporre unicamente del mio portatile abbastanza patocco questo è quanto son riuscito a fare. Chiaramente ora avendo approfondito un po' di più Kafka mi sento in obbligo di proporre qualche riga in più sul racconto e sul contesto. Prossimamente su questi schermi un post su Kafka, il suo racconto La metamorfosi e possibilmente qualcosa in più riguardo a questo denso racconto dal titolo La sentenza. Stay tuned!