giovedì 17 dicembre 2015

Sulla tolleranza

Sulla scia della foto che sta circolando in questi ultimi giorni che mostra l’intollerante cartello di un paese nel bresciano, ho pensato di buttare giù qualche riga per ribattere a tutti coloro i quali si sentano in dovere di sostenere questa battaglia contro i mulini a vento iniziata ormai da mesi.



È indubbio che gli attentati a Parigi abbiano toccato e ferito noi europei molto più profondamente di quanto non avessero fatto altri atti terroristici nel Medio Oriente. Non mi soffermerò troppo su questo aspetto, poiché in parte credo si possa giustificare in qualche modo questa sensazione – e sottolineo sensazione, perché se fosse un pensiero vero e proprio avrei più difficoltà a considerarlo accettabile – di ansia e panico che domina la scena politica europea e la vita quotidiana di ogni europeo da ormai un mese a questa parte. D’altronde, e spero mi sia concesso il parallelismo senza suonare amorale e poco empatico, non credo si possa biasimare qualcuno se questi apprende dell’esplosione di una bomba dietro la propria casa quando normalmente le bombe non sa nemmeno che faccia abbiano. È senza dubbio anche merito dei mass media, che ci tengono aggiornati, da una parte, su ciò che viene comodo a loro, e dall’altra, su ciò che ci è più vicino. Insomma, qualcuno potrà storcere il naso leggendo della distruzione di un Tempio facente parte del patrimonio mondiale dell’UNESCO a Palmira, in Siria, ma temo sia irrazionalmente giustificabile che la faccia della stessa persona assumerà un’espressione sgomenta se l’edificio in questione è il Colosseo a Roma. Come si suol dire, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Dal punto di vista razionale chiaramente questo discorso non regge e sono il primo a dire che la distruzione di un edificio antico e storicamente significativo sia un crimine contro l’umanità, come ha giustamente dichiarato l’UNESCO.

Ciò che d’altra parte trovo davvero esecrabile da molti punti di vista è il fatto che ci siano determinati soggetti che non condannano un’azione tanto ignobile quanto quella di chi ha avuto la geniale idea di ribadire che il proprio paese sia “a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana”, specificando sotto che “chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene”. Ora, posso capire che questi attentati abbiano dato il via ad un’ondata di terrore e panico generale che continua ad imperversare nella vita quotidiana di molti europei, però non vedo come un cartello del genere possa dare una risposta sensata e razionale alla brutalità e alla barbarie che lo Stato Islamico sta mostrando e seminando qui e in quel Medio Oriente tanto lontano dai nostri occhi occidentali. Non dico che non fosse quasi scontata una chiusura nei confronti degli islamici, d’altronde di persone poco raziocinanti al mondo ce ne sono eccome, però insomma, internet è un potente strumento di informazione e di analisi se usato correttamente. Il problema a questo punto immagino sia che la gente ne faccia un uso alquanto maldestro ed insano.

Il Tempio di Bel a Palmira, in Siria

Questo mi porta a ricordare che non esistono al mondo religioni vere e clinicamente testate, poiché si basano tutte sulla fede, sulla necessità da parte dell’uomo di credere in qualcosa, che sia in un dio cristiano, nelle antiche divinità egizie o in Allah poco importa. Il mio sdegno e la mia condanna trovano conferma nel fatto che tutto ciò sia stato illustrato dalla civiltà occidentale – e sottolineo occidentale, giusto perché non appena si pronuncia la parola “Oriente” i cervelli si staccano disinteressati e anzi piuttosto infastiditi – secoli fa, in quella famosa “età della ragione” che si studia a scuola e che si presenta con il nome di Illuminismo. Tanto per offrire uno spunto meno trito – ma forse altrettanto banale, per chi conosce la letteratura tedesca – rispetto a Voltaire e compagni, ripropongo qui la famosa “Ringparabel” (letteralmente, “parabola dell’anello”) contenuta in un testo caro ai germanisti dal titolo Nathan der Weise (in italiano, Nathan il saggio) dell’illustre Gotthold Ephraim Lessing. La parabola racconta della tradizione per la quale il padre di una famiglia regala al figlio che ama di più un prezioso anello in possesso della stessa da generazioni. Ad un certo punto, il padre in questione è costretto a scegliere tra i suoi tre figli, che ama in egual misura. Alterando la tradizione in modo esemplare, il padre decide di far produrre altri anelli identici all’originale e di dare ad ognuno dei tre figli uno di questi, assicurando ad oguno di essi che il suo sia quello autentico. Una volta che il padre muore, i tre figli si ritrovano a discutere riguardo a chi possieda l’originale, ma le copie sono troppo simili per essere riconosciute, anche davanti ad una corte di giustizia.

Se si considera il contesto nel quale è inserita questa parabola, è possibile avere un indizio fondamentale riguardo a come dovrebbe essere interpretata. Infatti, essa viene proposta a Saladin, il Sultano d’Egitto, dal personaggio eponimo, Nathan, un tollerante negoziante ebreo, in risposta alla domanda del primo riguardo a quale delle tre religioni monoteistiche sia quella autentica. L’anello originale è indiscernibile dalle copie – sempre che non siano tutte copie – pertanto l’invito della corte, alla fine della parabola, è esattamente quello di non guardare all’autenticità dell’anello, poiché non c’è alcun modo di decretarla in modo oggettivo. Ciò che ne risulta è quindi un invito alla tolleranza, poiché nessuna delle tre religioni può determinare in modo esatto la veridicità delle proprie affermazioni né si basa tantomeno su un mondo fattuale e razionale.

Ciò si ricollega, oltretutto, ad un video realizzato da dei ragazzi olandesi che è circolato non troppo tempo fa su social network e affini. In questo interessantissimo esperimento sociale, infatti, i suddetti hanno letto ad alta voce a dei passanti qualsiasi dei passaggi della Bibbia spacciandoli per sentenze del Corano e chiedendo poi a questi cosa ne pensassero. Ovviamente la condanna è stata prontamente sguinzagliata da tutti, non senza un certo grado di moralità cristiana, finché gli autori del video non hanno svelato che si trattava in realtà della Bibbia e non del Corano. Le reazioni sono state piuttosto sincere e umili, il che onestamente mi ha rallegrato – in fondo, chi pensa di conoscere un testo sacro così bene da distinguerlo da un altro? Ognuno di essi racconta una storia scritta migliaia di anni fa che era anche e soprattutto il prodotto di un universo culturale completamente diverso da quello che viviamo nel 2015. Ogni religione, in misure diverse, contiene parole di conforto, di amore, d’odio e di disprezzo, e proprio per questo ritengo – e Lessing con me – che nessuno di noi sia nella posizione di condannare una religione piuttosto che un’altra.

Alla luce di quanto illustrato da questa parabola, se da un lato la prima parte del cartello di Pontoglio sopraccitato aiuta i poveri paesani a ritrovare la strada di casa a mo’ di freccia “VOI SIETE QUI” sulle mappe dei centri commerciali (“sì, sei a casa, tranquillo, sei in Occidente e sei in un territorio cristiano”), d’altro canto non vedo come il messaggio di intolleranza sottostante possa elucidare la posizione del malcapitato. O forse, per gli abitanti di Pontoglio, questo messaggio di intolleranza sarà come una sonora pacca sulla spalla seguita da “pota bentornato a baita, la polenta è in tavola”; ciò che mi sconforta è che si debba e si possa ricorrere a tali colpi bassi per dichiarare la superiorità di un credo sugli altri, dimenticando di fatto la laicità dello Stato tanto cara ai giuristi.

Nella mia modesta opinione di italiano non aderente ad un credo ben preciso e stabilito, la religione, come tante altre cose, è una scelta personale e privata che deriva dalle diverse necessità di differenti persone. Non mi ritengo superiore a nessuno dei credenti solo perché decido di non far parte del mondo religioso né tantomeno sento la necessità di dichiarare ciò su un cartello all’entrata del mio paese. L’obbligo di rispettare la mia visione occidentale e cristiana – ammettendo che sia tale – tange i turisti, i visitatori e i miei vicini solamente nella misura in cui essi rispettino le leggi della mia terra: il mio credo non può e non deve farne parte.

Peraltro, mi chiedo che ne sarebbe di Davide se cercasse di sconfiggere Golia a mani nude...

mercoledì 3 giugno 2015

Nuvole


Pubblico qui il terzo monologo, sulla scia de Il fabbro e Alba, nella speranza che possa risultare interessante a qualcuno. Come sempre rimango aperto a critiche e pareri diversi dal mio.







Disteso in un prato osservo il percorso delle nuvole, le loro traiettorie inenarrabili, le guardo fare il loro inarrestabile corso. Il vento le sospinge un po’ più in là, gradualmente, pian piano, sempre più lontane. Le vedo trasformarsi lentamente, modellate da una forza che non sanno descrivere. Vengono separate, lacerate, levigate, gonfiate, smontate. Provo a contarle, una, due, tre, quattro... Sento di dovermi fermare qui. Sono molte di più di quante la mente non possa abbracciarne. Si susseguono senza tregua, occupano spazi indescrivibili, insondabili. Sembrano spumose, rigonfie, ma ho l’impressione che siano impalpabili al tatto. Che stranezza. Penso di conoscerle, credo di essermi impossessato del loro segreto, della loro natura, delle loro qualità intrinseche, ma non ho mai avuto modo di accarezzarle, di toccarle, di domarle. Non ne ho mai sentito l’odore, mai ne sentirò il sapore. Non so se si possano respirare, digerire, calpestare. Eppure le posso osservare e tramite questo unico senso credo di averle comprese, di averle rese parte della mia conoscenza del mondo. Sento di poterle adorare, di poterle amare come un’amante la notte del giovedì quando tua moglie è fuori casa: segretamente, intensamente, immersi in un mondo dove vigono altre regole, dove esistono solo due entità, tu e lei. La vergogna è qualcosa che nasce solo il giorno dopo, al risveglio, pian piano si inserisce nella tua giornata, inizia a punzecchiarti mentre giaci nudo nel letto, prima le dita dei piedi, poi le cosce, l’addome, il petto, il viso; a colazione è seduta con te al tavolo, senti il suo sguardo pesare su di te, ma non trovi il coraggio di ricambiare quello sguardo intenso, quell’implicito tono declamatorio che si rifà a grandi ideali di perfezione, di amore vero, di sentimenti genuini che tu non hai mai saputo cogliere, o che forse la vita non ti ha mai regalato; a pranzo, lei torna, la vergogna si stampa sulle sue labbra quando la baci e la accogli in casa prima di tornare a lavoro; come un alone, ti accompagna fino a cena, un alone scuro, violaceo, funereo; la sera rincasi, obnubilato da una presenza che non è di questo mondo, ti cambi, ti fai una doccia, sperando di levartela di dosso; la vedi scendere giù per lo scarico, pensi di essertene liberato, ma era solo sporcizia.
Il sole torna a splendere, si riflette sul mio viso confuso, contratto in mille pensieri infelici. Ricordi di una notte altrettanto miserabile. La passione di qualche manciata di minuti, la voluttà ti attanaglia, e tu la espelli in un pezzo di lattice. Scatenarsi, ansimare, riposare esausti l’uno accanto all’altra. Imprimere il proprio sudore, il proprio odore nelle lenzuola: questo sarà ciò che ne rimarrà l’indomani, una presenza nebulosa, vaga, che porta alla mente ricordi confusi, ingarbugliati, impossibili da rievocare nel dettaglio. Ricordi i suoi movimenti sopra di te, la ciocca di capelli che le hai spostato dal viso, le sue mani sul tuo petto, poco altro. Ad accompagnarti fuori dalla porta è la vergogna del tradimento, della tua gretta esistenza spoglia di vesti illibate, candide, profumate. Tutto ciò che rimane è l’odore di un processo innaturale, artificioso, forzato, privo di senso. Ti rifugi nel tutto, nelle nuvole che accarezzano dolcemente il cielo mentre si dirigono verso mete che non potrai mai ammirare. Loro fugaci, leggere, eleganti; tu ancorato a questa esistenza terrena, a questo suolo bagnato di lacrime, macchiato di sangue, calpestato da milioni di fantasmi che, come te, girovagano immersi nei loro eterni, insensati scopi.
E se queste nuvole fossero destinate a rimanere? Se il loro moto fosse apparente, se il sole non riuscisse mai più a penetrare questa coltre grigia e melancolica? O se ci riuscisse solamente sporadicamente, come se un qualcuno, un qualcosa di più grande volesse graziarmi, così, per tenermi vivo e vegeto? Se questo cielo nuvoloso, grigio, fosse la regola e non l’eccezione? Se i pensieri e i ricordi fossero destinati a bussare alla porta costantemente, vigili, imperituri, attendendo la mia più piccola debolezza? Se io fossi in un rifugio in montagna da solo, attendendo qualcuno, ma alla porta si presentasse solo un lupo solitario? Se questo iniziasse a graffiare la porta, a ululare, a digrignare i denti quando osassi scaricare il mio sguardo spaventato su di lui? Se quel qualcuno non arrivasse mai e io fossi destinato a rimanere bloccato in quella casa, isolato dal mondo da una bestia feroce pronta a divorarmi non appena io decidessi di cedere al suo canto intossicante? Ci sarebbe indubbiamente un certo piacere in tutto ciò. Quella sorta di voluttà provocata dal bel canto delle sirene, che ti ammaliano e ti invitano all’autodistruzione. Forse è questo l’unico piacere che saprei concedermi, quello del dolore, dell’atrocità, dell’annientamento. Niente amore, niente sesso, nessun legame che sappia dare una svolta alla mia esistenza. Nessun porto sicuro. Sono al contempo la tempesta e il capitano della nave destinata a smantellarsi sugli scogli. Che le sirene cantino o meno poco importa. Non ho una rotta, nessuno strumento di navigazione mi sa davvero aiutare a trovare la strada, nessun tipo di presenza umana o divina mi assiste. Ci siamo solo io e questa tempesta che sono i miei pensieri, che si susseguono l’un l’altro senza posa, proprio come queste candide nuvole che soffocano il sole e la sua luce. Scorrono una dopo l’altra, senza sosta, tanto leggiadre quanto letali. Si tratta solo di una parvenza di movimento, di fatto non fanno altro che perpetuare il soffocamento del sole. Qualche volta ricompare, prende fiato esausto, quasi esanime, per poi tornare nell’ombra a cui appartiene.
Io sono il sole destinato a non spegnersi mai, soffocato dall’eterno susseguirsi di nuvole dalla sostanza impalpabile. Questa è la mia condizione, questa la mia condanna.

domenica 31 maggio 2015

Alba


Seguendo le orme di un mio pezzo precedente intitolato Il fabbro, ho deciso di cimentarmi nella scrittura di monologhi interiori brevi e sostanzialmente monotematici per affrontare alcuni temi che mi stanno cari. Questo è il secondo pezzo che risulta da questo tentativo. Come sempre rimango aperto a pareri diversi dal mio, sentitevi liberi di commentare pubblicamente o in privato.



La pioggia batte contro al vetro di questo luogo asettico e immacolato, eppure così macchiato di piccole tragedie quotidiane da emanare un odore nauseabondo di lacrime e dolore. Osservo il mondo fuori, attraverso la finestra, proprio come la protagonista di una tragedia domestica che sogni di essere altrove, immersa nell’esoticità di posti che mai furono e mai saranno. Intravedo le prime luci del giorno avvicinarsi, all’orizzonte il sole ancora si fa attendere, ma la natura ha già organizzato un comitato d’accoglienza degno di nota. Il canto del mattino non tarda ad inserirsi lentamente nel cambiamento che la natura subisce da notte a giorno, da oscurità a luce, da silenzio a rumore. Le mie dita, intrecciate in un fazzoletto, mostrano i primi segni di una stanchezza che vorrei non mi appartenesse. Tremano, fanno dei periodici scatti repentini che mi riportano costantemente alle lacrime e alla sofferenza di questa realtà. Mi volto verso il letto dove giace l’uomo che amai per tutta la vita. Lo vedo inerte, impassibile; lo vedo vegetare in uno stato che ancora non riesco ad accettare. Deglutisco, abbasso lo sguardo. Stringo il fazzoletto, ne noto nuovamente il tessuto pregiato, quella stessa seta che negli anni ha accolto la mia sofferenza, che mi ha cullata e mi ha fatta scivolare fuori dai momenti più bui. Qui ritrovo le mie lacrime, le parti più sofferenti del mio corpo, il sudore di un parto, il sangue che ho strofinato via dalle ferite dell’infanzia di nostro figlio. Ripercorro i passi che mi hanno portata in questa stanza d’ospedale e mi chiedo cosa la vita volesse davvero da me. Mi chiedo se ogni piccolo movimento, ogni parte, ogni minimo gesto fosse necessario ed inevitabile. Arrancare, spostarsi, ritornare sui propri passi, camminare secondo traiettorie prestabilite, descrivere un cerchio con il proprio andazzo claudicante. Che razza di percorso è la vita. Scuoto la testa, le mie labbra si raggrinziscono in un sorriso sofferente, sento il dolore affluire agli angoli dei miei occhi. Osservo le mie mani consunte, accarezzo il mio fazzoletto color panna, poi ritrovo la forza per guardare nuovamente quel corpo freddo come roccia che langue infermo in uno scomodo letto d’ospedale. Tutto questo volge al termine. Non si tratta più di osservare l’uomo che ho amato per un’umana eternità, no, questo ormai si riduce ad essere un macabro spettacolo della natura. E io sono costretta ad assistervi come spettatrice impassibile, non batto ciglio di fronte a tanta crudeltà, mi rifugio anzi nelle sofferenze del mio passato, cerco di visualizzare un futuro ottenebrato da questo evento assassino. Rabbia, sofferenza, incapacità di affrontare questo strazio. È questa la mia tragedia? Quella che porterò a malincuore per il resto della mia esistenza, quella grande croce rossa, quel bracciale funereo che cingerà il mio braccio per sempre? È questo l’inevitabile destino verso cui sto correndo?
Mi lascio distrarre dal più piccolo rumore, la mia inesausta speranza mi tiene attenta, vigile, in attesa del più piccolo segnale. A volte è un respiro più affannato, altre volte si tratta di un movimento quasi impercettibile delle dita. In ogni caso, nulla si muove, tutto è fuori dal tempo, stanotte. Tutto tranne questa crudele natura che ci spia dalla finestra, che sgomita ricordandoci che c’è sempre qualcosa di più grande che si muove anche se noi siamo ancorati in un deserto atemporale. Quanta ironia c’è nel mondo, nell’inesorabile correre del tempo, nell’eterno ripetersi delle stagioni, nella nostra perpetua lotta per trascinare dietro di noi cose che non ci possono più appartenere. Ci opponiamo alla natura, cerchiamo di divincolarcene, di strapparle qualcosa che ha saputo smuovere in noi un sentimento, un affetto, una passione. In un primo momento ci riusciamo, i nostri avidi artigli infossati nella carne così fresca, sanguinea, del colore del migliore dei tramonti. Presto o tardi, ci accorgeremo che siamo aggrappati ad un pezzo di carne imputridita, dall’odore nauseabondo, troveremo dei vermi ad ogni morso, introdurremo del veleno nel nostro organismo, lo masticheremo in parte soddisfatti, in parte avviliti, lo assimileremo, impareremo a digerirlo, a volte persino ad apprezzarlo. E poi sarà troppo tardi, ci rassegneremo. Guarderemo il nostro riflesso nello specchio abbattuti, vedremo un viso emaciato, logoro, incapace di subire il lento protrarsi della nostra sofferenza. Vorremo piangere, esternare il nostro dolore, ciò che ci lacera l’anima, ma ci accorgeremo, finalmente, che ad ogni alba ci siamo riscoperti non più forti, ma più adatti al nostro ruolo di maschere di sofferenza; ogni giorno, abbiamo migliorato la nostra capacità, abbiamo levigato i nostri spigoli per riuscire a stare in un cerchio perfetto, per riuscire a fare ciò che abbiamo trascinato con noi negli ultimi anni. Cosa siamo diventati? Intossicati dalle nostre faccende quotidiane, dimentichi del mondo, dello schema più grande nel quale siamo inseriti, puramente interessati al nostro gretto egoismo, alle nostre cose, ai nostri affetti, alle estensioni della nostra personalità, abbiamo proseguito nella nostra futile lotta contro un destino più grande di noi. Ci siamo creduti superiori al mondo, alla morte, persino alla vita. Abbiamo ricreato vita, l’abbiamo introdotta nella nostra misera esistenza quotidiana, ci siamo ostinati a portarci appresso tutto ciò che ci era caro. Non abbiamo mai imparato a dire addio, non ci siamo mai abituati al commiato. Ma il conto arriva sempre. Io sono qua a pagarlo, davanti alla beffa che il mondo si fa di me e della mia minuscola presenza, della mia lacrimosa tragedia da quattro soldi. In un attimo, la macchina si spegne, mio marito con lei. L’ospedale si ottenebra davanti ad un’alba che non è mai stata più lucente, un sole scintillante compare all’orizzonte, forte, ruggente, impavido. Nell’umanità impazza il caos.
Non trovo nemmeno la forza di alzarmi da questa sedia. Le lacrime si annidano agli angoli dei miei occhi lucidi, la mia faccia si comprime in una smorfia sofferente, ma pacata, quasi serena. Sento la mia nuora chiamarmi, da fuori: “Alba!”.
Già, proprio così. Quanta ironia.
Quanta ironia.

martedì 19 maggio 2015

Life's too short to learn German


As a student of German, I always have people say to me that German is a hard and difficult language. There certainly is a seed of truth in that. German is undoubtedly a less melodic language than Italian. It generally has harsher sounds and it quite inevitably calls to mind National-Socialism and Angela Merkel. Nonetheless, I personally think that German also has pleasant sounds, but I find it quite hard to convey them through a virtual page. For this reason, I’ll limit myself to explaining why I find a language like German extremely fascinating.

The basic principle of German is that every word can be linked to others in order to put across a certain message. It is quite a flexible language in terms of vocabulary – as opposed to English, I think, where vocabulary is extremely varied but one word generally sounds ‘good’ only with a few others – and it is extremely inflexible in terms of grammar. One of the major problems is represented by cases, which, despite being just four, become quite tricky when combined with three different genders – masculine, feminine, and neuter – and several distinctions, especially in the case of adjectives, which take different endings according to what comes before. Were I to say ‘happy people’ and ‘the happy people’, there would be a final ‘n’ which would distinguish between one ‘happy’ and the other.

As far as syntax goes, periods can be extremely long and they generally save up the verb for the end, which might seem at first absolutely illogical. Paradoxically enough, in German it is fundamental to listen to the end of the sentence rather than its beginning, because that’s where the verb usually is – at least in subordinate clauses. In languages such as English or Italian, it is not even necessary to end sentences in order for the other person to understand our message, so there is definitely a great gap between those and German.

That being said, my post intended to illustrate a couple of examples of how German creates words which I find fascinating – and also quite untranslatable. I’m not simply referring to the fact that gloves are in German ‘handshoes’ (die Hand = hand; der Schuh = shoe; der Handschuh = glove) or to the fact that a refrigerator is a ‘cool cupboard’ (der Schrank = cupboard/wardrobe; kühl = cool; der Kühlschrank = refrigerator). Here are a few German words which evoke wonderful ideas and which I find particularly intriguing.

1. die Ellenbogengesellschaft
(literally, "elbows-society")
 
This is a concept which gained particular significance thanks to expressions such as ‘homo homini lupus’ or, in Hegelian terms, ‘Spiritual Animal Kingdom’ (‘das geistige Tierreich’). Basically, it is the concept on which today’s Capitalist society is based, namely that of fierce competition. In an ‘elbows-society’, individuals elbow their way among their fellows in order to prevail over the masses. This is an idea which is conjured up by one word in German, and this is why I find it fascinating.

2. die Prinzipienreiterei (literally, "principles-cavalry")

This is a word which I found in Theodor Fontane’s Effi Briest and which is particularly useful in the depiction of one of the major characters, i.e. Baron von Innstetten, the eponymous character’s husband. This term describes a nearly obsessive clinging to principles, be they self-imposed or dictated by society. This means therefore that a person presenting this feature will not be able to act independently, but he or she will always have to recall social norms before deciding which course of action is the one to follow. In the case of Innstetten, he finds out that his wife betrayed him over six years before and he feels obliged to confront his former rival in a duel – besides distancing her from their family. This is of course because it was socially necessary to challenge somebody to a duel if they offended you, especially when it was to do with a problem which law did not address.

3. das Fingerspitzengefühl (literally, "fingertips-feeling")

This term expresses what is generally called savoir faire or in some cases it just means tact, but I find the German word much more evocative and interesting.

4. der Ohrwurm (literally, "earworm")

Although this term might evoke quite unpleasant images, in colloquial German it indicates that sort of song which is extremely catchy and ‘gets in to your ear’ quite easily. Once again, the German seems to be much more metaphorical and evocative than other languages.

5. das Fernweh (literally, "distance-pain")

This term basically describes a sort of longing for far away countries, even though some people claim that it describes instead a longing for countries you’ve never visited. The Duden dictionary describes this term as ‘Sehnsucht nach der Ferne, nach fernen Ländern’, namely as a ‘longing for distance, for distant countries’.
I hope this post is at least half as interesting as these words are in my eyes. Meanwhile, let me just repeat that
"Das Leben ist zu kurz, um Deutsch zu lernen."
"Life is too short to learn German."