domenica 14 aprile 2019

Simone de Beauvoir e la questione femminile

Simone de Beauvoir

Il 14 aprile 1986, Simone de Beauvoir, una delle figure più importanti del femminismo del primo Novecento, moriva a Parigi. A 33 anni di distanza, penso sia importante ricordarla per una serie di ragioni. La sua opera Il secondo sesso (1949) è stata infatti criticata duramente dal femminismo di seconda ondata (anni 60-70 per intenderci) in quanto, a suo dire, basata su stereotipi patriarcali. Il fraintendimento è secondo me lampante: lungi dell’essere una prescrizione di ciò che significhi essere donne e uomini nella società del suo tempo, quel libro voleva essere piuttosto una descrizione di come si interfaccino alla realtà i soggetti caratterizzati dall’appartenenza al “secondo sesso”. De Beauvoir riteneva, com’è risaputo, che “donne non si nasce, si diventa”: il genere non è qualcosa di biologico o anatomico, è un costrutto socio-culturale che condiziona il nostro stare mondo.

Il suo contributo al dibattito sulla soggettività e sull’essere mi pare ancora fondamentale oggi: come possiamo parlare di “esserci” (Heidegger) o di “per-sé” (Sartre) senza avanzare considerazioni sul genere del soggetto? Cosa significa essere un soggetto privo di genere? Secondo de Beauvoir, significa essere un soggetto maschio; alla donna non sono permesse le stesse attività concesse al soggetto universale (leggi “uomo”). E la storia della considerazione concessa a de Beauvoir prova proprio questo. Ancora oggi nei manuali di filosofia, non solo del liceo, ma anche quelli consigliati all’università, le donne non trovano posto. Non perché non ci siano mai state filosofe donne, ma perché il loro operato viene visto come marginale, come se non contribuissero realmente ai dibattiti della “vera” filosofia (leggi “maschile”). Non importa che de Beauvoir, nonostante non si considerasse una “vera filosofa”, probabilmente per un senso di inferiorità inculcatole dalla società patriarcale, avesse di fatto allargato gli orizzonti dei filosofi del suo tempo. Ricordiamo, per esempio, che fu in grado di scrivere il trattato di filosofia morale che Sartre non fu mai in grado di scrivere ma solo abbozzare. Ricordiamo soprattutto che quando ci interroghiamo su un soggetto che “esiste”, che costruisce la sua identità attraverso le scelte che opera all’interno di una determinata realtà, non considerare il genere come “fatticità”, come parte  del condizionamento del soggetto, è sinonimo di privilegio. Perché se non vedi il tuo genere come rilevante, significa che questo non determina il tuo agire nel mondo in modo sostanziale – e questo per una donna negli anni ’50 non poteva essere vero (come non può esserlo oggi).

Il femminismo di seconda ondata, volto a rivoluzionare la concezione della donna e del genere in una società in rapido cambiamento, vide Il secondo sesso con occhio torvio, perché in quel libro, a detta loro, venivano perpetuati stereotipi patriarcali di “immanenza” e “trascendenza”. Attraverso questi termini, de Beauvoir mette in luce la differenza presente tra l’agire dell’uomo e quello della donna. Nel primo caso, troviamo azioni rese possibili da un soggetto sovrano del proprio avvenire, che gode di privilegi in una società modellata su di lui. Il soggetto maschio è in grado di dare forma alla sua esistenza, di essere libero e responsabile delle sue azioni, di “trascendere”, appunto, qualsiasi forma di determinismo socio-culturale. “L’uomo”, dice Sartre, “è condannato a essere libero”. De Beauvoir fa notare, in primo luogo, che nel linguaggio patriarcale “uomo” non significa semplicemente “essere umano” (l'homo latino, il Mann tedesco), ma anche – e, in questo contesto, soprattutto – “essere umano maschile” (il vir latino, il Mensch tedesco). Le teorie di Heidegger e Sartre, nel tentativo di essere universali, scadono in una visione necessariamente ristretta dell’essere umano. De Beauvoir, dal canto suo, sostiene che, contrariamente al soggetto maschile, quello femminile, in una società patriarcale, si configuri come Altro, come inessenziale, come “immanenza”, in quanto non le è concesso di trascendere la sua fatticità. Il suo agire nel mondo molte volte scade in una serie di “funzioni”, come la procreazione della specie o la perpetuazione dell’uguale nella sfera domestica (leggi “pulizie e faccende domestiche”). Il suo avvenire viene guidato dalla sfera sociale, culturale, e politica di cui fa necessariamente parte ma che molto spesso non può trascendere.

Questo discorso è rinforzato da un simbolismo che si manifesta, secondo de Beauvoir, anche nella sfera sessuale e nella crescita di bambini e bambine. Le donne spesso non possono, nella società del suo tempo, esercitare controllo sui loro corpi, complici la pessima informazione sul funzionamento del corpo femminile, lo stigma dell’aborto (che in molti paesi ai tempi era ancora illegale) e del sesso al di fuori del matrimonio (concetto per fortuna ormai démodé per noi del ventunesimo secolo); finiscono pertanto per vivere il mestruo come un’attività su cui non hanno per niente il controllo, vedendosi “aliene”, estranee, alla loro stessa anatomia, e sono obbligate dalla società patriarcale a vedere un atto sessuale come qualcosa che si riceve piuttosto che si dà liberamente. L’uomo “entra” nella donna, la donna lo “riceve” passivamente. L’atto sessuale per loro viene relegato al rango di “funzione” procreativa, il che le subordina alla specie e alla sua perpetuazione piuttosto di configurarle come soggetto.

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre a Pechino nel 1955
Tutto questo discorso, come si diceva sopra, descrive la società patriarcale, ma non intende in alcun modo prescrivere regole di condotta universali per le donne. L’errore del femminismo di seconda ondata, a mio avviso, è stato quello di vedere Il secondo sesso come un monito, un invito a essere donne in questo o quel modo, un incoraggiamento a vedersi come Altro che “riceve” l’attività dell’uomo e perpetua gli interessi della specie. Nel descrivere questa realtà socio-culturale, de Beauvoir intendeva gettare luce sulle sue incongruenze, sugli stereotipi e sul simbolismo che portava avanti; la sua era una critica caustica tramite un apparato bibliografico degno di nota. Vederla come una donna “mascolina”, che perpetua gli interessi del “primo sesso”, psicanalizzarla come una donna fissata con la figura dell’uomo forte (aveva un padre che stimava profondamente), che si sente tale e che condanna apertamente le donne per la loro passività, è secondo me un’opinione fin troppo diffusa che andrebbe contrastata. Certo, de Beauvoir non vedeva le donne solamente come vittime di un sistema patriarcale, ma anche come complici: ai suoi tempi erano infatti le madri che crescevano le bambine e inculcavano loro l’idea della femminilità – che in de Beauvoir è sinonimo di mutilazione in quanto priva un soggetto della sua trascendenza. Così le bambine venivano tenute in casa a cucinare con le madri e a fare le moine, mentre i maschietti venivano lasciati fuori a giocare e confrontarsi con la natura. Per le une i vestitini, i cerchietti e il rosa, per gli altri l’arrampicarsi sugli alberi, lo sporcarsi nella terra e l’azzurro. Questa idea di educazione dei figli e delle figlie è secondo de Beauvoir da condannare apertamente; lei auspica invece che essa venga affidata meno ai genitori e più a una società che è cosciente delle sfide che il genere pone specialmente ai soggetti vulnerabili (ossia bambini e bambine), e nello specifico a quelli femminili.

È per questa serie di ragioni che ritengo sia fondamentale considerare ancora oggi la figura di Simone de Beauvoir come una filosofa che ha ampliato gli orizzonti maschilisti dei suoi contemporanei e che ha criticato aspramente non solo la società patriarcale, ma anche i soggetti che non si riappropriano del loro avvenire, specialmente se donne. In quanto vittime di un sistema così metodico nell’oppressione e nella sua perpetuazione, hanno una responsabilità maggiore verso le loro scelte. In un tempo in cui si combatte per la famiglia tradizionale e eteronormativa che perpetua ideali quali l’oppressione della donna, la gravidanza forzata, la spietata biopolitica mediata dai corpi delle donne, ricordare le grandi figure di filosofe e femministe non può che farci bene. Strappiamo la storia dal controllo patriarcale e illuminiamo, attraverso il genere, gli angoli più bui in cui son state relegate le grandi figure femminili del passato. Ci aspetta un mondo da (ri)scoprire.