domenica 14 aprile 2019

Simone de Beauvoir e la questione femminile

Simone de Beauvoir

Il 14 aprile 1986, Simone de Beauvoir, una delle figure più importanti del femminismo del primo Novecento, moriva a Parigi. A 33 anni di distanza, penso sia importante ricordarla per una serie di ragioni. La sua opera Il secondo sesso (1949) è stata infatti criticata duramente dal femminismo di seconda ondata (anni 60-70 per intenderci) in quanto, a suo dire, basata su stereotipi patriarcali. Il fraintendimento è secondo me lampante: lungi dell’essere una prescrizione di ciò che significhi essere donne e uomini nella società del suo tempo, quel libro voleva essere piuttosto una descrizione di come si interfaccino alla realtà i soggetti caratterizzati dall’appartenenza al “secondo sesso”. De Beauvoir riteneva, com’è risaputo, che “donne non si nasce, si diventa”: il genere non è qualcosa di biologico o anatomico, è un costrutto socio-culturale che condiziona il nostro stare mondo.

Il suo contributo al dibattito sulla soggettività e sull’essere mi pare ancora fondamentale oggi: come possiamo parlare di “esserci” (Heidegger) o di “per-sé” (Sartre) senza avanzare considerazioni sul genere del soggetto? Cosa significa essere un soggetto privo di genere? Secondo de Beauvoir, significa essere un soggetto maschio; alla donna non sono permesse le stesse attività concesse al soggetto universale (leggi “uomo”). E la storia della considerazione concessa a de Beauvoir prova proprio questo. Ancora oggi nei manuali di filosofia, non solo del liceo, ma anche quelli consigliati all’università, le donne non trovano posto. Non perché non ci siano mai state filosofe donne, ma perché il loro operato viene visto come marginale, come se non contribuissero realmente ai dibattiti della “vera” filosofia (leggi “maschile”). Non importa che de Beauvoir, nonostante non si considerasse una “vera filosofa”, probabilmente per un senso di inferiorità inculcatole dalla società patriarcale, avesse di fatto allargato gli orizzonti dei filosofi del suo tempo. Ricordiamo, per esempio, che fu in grado di scrivere il trattato di filosofia morale che Sartre non fu mai in grado di scrivere ma solo abbozzare. Ricordiamo soprattutto che quando ci interroghiamo su un soggetto che “esiste”, che costruisce la sua identità attraverso le scelte che opera all’interno di una determinata realtà, non considerare il genere come “fatticità”, come parte  del condizionamento del soggetto, è sinonimo di privilegio. Perché se non vedi il tuo genere come rilevante, significa che questo non determina il tuo agire nel mondo in modo sostanziale – e questo per una donna negli anni ’50 non poteva essere vero (come non può esserlo oggi).

Il femminismo di seconda ondata, volto a rivoluzionare la concezione della donna e del genere in una società in rapido cambiamento, vide Il secondo sesso con occhio torvio, perché in quel libro, a detta loro, venivano perpetuati stereotipi patriarcali di “immanenza” e “trascendenza”. Attraverso questi termini, de Beauvoir mette in luce la differenza presente tra l’agire dell’uomo e quello della donna. Nel primo caso, troviamo azioni rese possibili da un soggetto sovrano del proprio avvenire, che gode di privilegi in una società modellata su di lui. Il soggetto maschio è in grado di dare forma alla sua esistenza, di essere libero e responsabile delle sue azioni, di “trascendere”, appunto, qualsiasi forma di determinismo socio-culturale. “L’uomo”, dice Sartre, “è condannato a essere libero”. De Beauvoir fa notare, in primo luogo, che nel linguaggio patriarcale “uomo” non significa semplicemente “essere umano” (l'homo latino, il Mann tedesco), ma anche – e, in questo contesto, soprattutto – “essere umano maschile” (il vir latino, il Mensch tedesco). Le teorie di Heidegger e Sartre, nel tentativo di essere universali, scadono in una visione necessariamente ristretta dell’essere umano. De Beauvoir, dal canto suo, sostiene che, contrariamente al soggetto maschile, quello femminile, in una società patriarcale, si configuri come Altro, come inessenziale, come “immanenza”, in quanto non le è concesso di trascendere la sua fatticità. Il suo agire nel mondo molte volte scade in una serie di “funzioni”, come la procreazione della specie o la perpetuazione dell’uguale nella sfera domestica (leggi “pulizie e faccende domestiche”). Il suo avvenire viene guidato dalla sfera sociale, culturale, e politica di cui fa necessariamente parte ma che molto spesso non può trascendere.

Questo discorso è rinforzato da un simbolismo che si manifesta, secondo de Beauvoir, anche nella sfera sessuale e nella crescita di bambini e bambine. Le donne spesso non possono, nella società del suo tempo, esercitare controllo sui loro corpi, complici la pessima informazione sul funzionamento del corpo femminile, lo stigma dell’aborto (che in molti paesi ai tempi era ancora illegale) e del sesso al di fuori del matrimonio (concetto per fortuna ormai démodé per noi del ventunesimo secolo); finiscono pertanto per vivere il mestruo come un’attività su cui non hanno per niente il controllo, vedendosi “aliene”, estranee, alla loro stessa anatomia, e sono obbligate dalla società patriarcale a vedere un atto sessuale come qualcosa che si riceve piuttosto che si dà liberamente. L’uomo “entra” nella donna, la donna lo “riceve” passivamente. L’atto sessuale per loro viene relegato al rango di “funzione” procreativa, il che le subordina alla specie e alla sua perpetuazione piuttosto di configurarle come soggetto.

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre a Pechino nel 1955
Tutto questo discorso, come si diceva sopra, descrive la società patriarcale, ma non intende in alcun modo prescrivere regole di condotta universali per le donne. L’errore del femminismo di seconda ondata, a mio avviso, è stato quello di vedere Il secondo sesso come un monito, un invito a essere donne in questo o quel modo, un incoraggiamento a vedersi come Altro che “riceve” l’attività dell’uomo e perpetua gli interessi della specie. Nel descrivere questa realtà socio-culturale, de Beauvoir intendeva gettare luce sulle sue incongruenze, sugli stereotipi e sul simbolismo che portava avanti; la sua era una critica caustica tramite un apparato bibliografico degno di nota. Vederla come una donna “mascolina”, che perpetua gli interessi del “primo sesso”, psicanalizzarla come una donna fissata con la figura dell’uomo forte (aveva un padre che stimava profondamente), che si sente tale e che condanna apertamente le donne per la loro passività, è secondo me un’opinione fin troppo diffusa che andrebbe contrastata. Certo, de Beauvoir non vedeva le donne solamente come vittime di un sistema patriarcale, ma anche come complici: ai suoi tempi erano infatti le madri che crescevano le bambine e inculcavano loro l’idea della femminilità – che in de Beauvoir è sinonimo di mutilazione in quanto priva un soggetto della sua trascendenza. Così le bambine venivano tenute in casa a cucinare con le madri e a fare le moine, mentre i maschietti venivano lasciati fuori a giocare e confrontarsi con la natura. Per le une i vestitini, i cerchietti e il rosa, per gli altri l’arrampicarsi sugli alberi, lo sporcarsi nella terra e l’azzurro. Questa idea di educazione dei figli e delle figlie è secondo de Beauvoir da condannare apertamente; lei auspica invece che essa venga affidata meno ai genitori e più a una società che è cosciente delle sfide che il genere pone specialmente ai soggetti vulnerabili (ossia bambini e bambine), e nello specifico a quelli femminili.

È per questa serie di ragioni che ritengo sia fondamentale considerare ancora oggi la figura di Simone de Beauvoir come una filosofa che ha ampliato gli orizzonti maschilisti dei suoi contemporanei e che ha criticato aspramente non solo la società patriarcale, ma anche i soggetti che non si riappropriano del loro avvenire, specialmente se donne. In quanto vittime di un sistema così metodico nell’oppressione e nella sua perpetuazione, hanno una responsabilità maggiore verso le loro scelte. In un tempo in cui si combatte per la famiglia tradizionale e eteronormativa che perpetua ideali quali l’oppressione della donna, la gravidanza forzata, la spietata biopolitica mediata dai corpi delle donne, ricordare le grandi figure di filosofe e femministe non può che farci bene. Strappiamo la storia dal controllo patriarcale e illuminiamo, attraverso il genere, gli angoli più bui in cui son state relegate le grandi figure femminili del passato. Ci aspetta un mondo da (ri)scoprire.

giovedì 19 gennaio 2017

Judith Butler e il fantomatico "gender"

Judith Butler
È ormai da un anno a questa parte che, anche attraverso all’operato delle Sentinelle in piedi – se di operato si può parlare –, girano diverse opinioni, perlopiù poco informate e confuse, su cosa sia questo “gender” tanto temuto dalla buona vecchia famiglia tradizionale. (E già qui mi rendo conto che dovrei mettere molti più incisi e molte più parentesi di quanto la lingua italiana non mi concederebbe).

Inutile ribadire, così dice la parte di me che ha fede nel progresso e nel grado minimo di istruzione dell’italiano medio, che di famiglia tradizionale non si può effettivamente parlare, non qui, non altrove, non ora, né mai. Se qualcuno effettivamente volesse di nuovo scomodare Madre Natura, questo concetto così livido e mal ridotto che io stesso ho voluto tirare in ballo giusto un anno fa per parlare di femminismo, beh, ecco, le mie risposte, spero abbastanza esplicite da essere comprese, le trovereste appunto lì. Questo giusto per partire da un qualcosa di ormai assodato: la natura e la famiglia tradizionale sono concetti che mi piace definire postumi in quanto riportati in vita da chi ritiene di vederli ancora aggirarsi tra noi animali sociali del ventunesimo secolo.

Ma non è per questo che son voluto tornare a scrivere del femminismo. Ciò che non ho mai avuto modo di spiegare in modo abbastanza chiaro ed esplicito è proprio l’idea di “gender”, in parte per negligenza mia, in parte perché non avevo ancora bene in mente qualcuno che ci avesse effettivamente dedicato la propria carriera accademica e personale. Certamente, Simone de Beauvoir disse che non si nasce donne, ma lo si diventa, okay, ma di che cosa stiamo parlando? Certamente quando si è piccole nessuno oserebbe prounciare quella parola che sottende maturità per parlare di bambine. Quindi, da un certo punto di vista, la sua idea si basa anche su un fatto biologico, pur mirando a comunicare qualcosa di diverso.

Simone de Beauvoir fotografata da Henri Cartier-Bresson (1945)

Ebbene, non troppi mesi fa scoprii una filosofa e professoressa di letterature comparate e teoria letteraria presso l’Università della California, Berkeley. Questa tale Judith Butler, che nel mondo anglofono e in campo accademico è molto più conosciuta rispetto a quanto non se ne parli effettivamente in Italia, ha scritto un libro estremamente illuminante sul “gender” dal titolo Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity – per gli amici basta Gender Trouble. In esso, Butler traccia una linea di demarcazione tra il sesso di un individuo e il suo genere (come si può ben immaginare, le parole in inglese sono “sex” e “gender”, che io preferirei tradurre in questo caso dato che abbiamo la fortuna di avere gli equivalenti italiani nella nostra bellissima lingua). Il sesso sarebbe la componente biologica di ogni individuo, l’insieme delle nostre fattezze e funzionalità, insomma la nostra corporalità, nella quale nasciamo e cresciamo. Il genere, invece, ci verrebbe affibiato già dal momento della nostra nascita ed è il risultato quindi di un riconoscimento esterno di ciò che noi siamo, un’etichetta che ci viene incollata in fronte nel momento in cui quelle fattezze vengono ricondotte unicamente ed esclusivamente ad una categoria o all’altra.

Qui la situazione si complica. Crescendo, infatti, noi iniziamo a mettere in atto questo genere attraverso i nostri gesti, le nostre azioni, i nostri gusti, insomma attraverso le nostre scelte. Il genere viene pertanto ritenuto da Judith Butler una questione di performatività – e non di espressione. Alla nascita ci viene comunicato in quale delle due categorie veniamo agilmente sistemati e noi creiamo una nostra identità di genere attraverso le nostre azioni, sì, ma in un quadro prestabilito di stampo eteronormativo e, di base, di dominanza maschile. Le ragazze giocheranno con le bambole, adoreranno il rosa, i vestitini, i trucchi, non sapranno guidare né parcheggiare, saranno sensibili, isteriche, umorali; i ragazzi, al contrario, saranno forti, sportivi, dominanti, ameranno i motori e il lavoro manuale. Si tratta di una finzione regolatrice che ci impone modelli da seguire a seconda della nostra appartenenza ad una o l’altra categoria. Non si tratta pertanto di “esprimere” noi stessi, si tratta di “mettere in atto” delle tendenze e dei gusti prestabiliti.

Momento simpatia
Tutto questo suggerisce pertanto che la nostra identità di genere ha poco a che fare con il nostro sesso. Essere uomini o donne non comporta tutta una serie di aspettative sociali, implica semplicemente differenze biologiche che hanno poco a che fare con ciò che la società ci propina come ferree regole per essere membri di uno o l’altro genere. La nostra identità di genere non è dettata da leggi naturali o biologiche a noi innate e pertanto inevitabili, no; essa viene costruita dal nostro agire all’interno di una società che abbina ad un determinato sesso uno specifico genere e, di conseguenza, una determinata identità sociale. Non a caso una delle principali fonti di ironia e umorismo è proprio l’inversione delle aspettative di genere, come documentato non soltanto dalle commedie dell’antichità e, più genericamente, del passato, ma anche dalle attuali commedie americane (la prima che mi venga in mente a farne ampio uso è Modern Family, basti pensare alla coppia di Phil e Claire). Oltretutto, un fenomeno che nuoce gravemente alla credibilità dell’identità di genere è quello delle drag queen, uomini – dal punto di vista del sesso – che sfidano le convenzioni di genere e si appropriano di fattezze e comportamenti che sono propri della categoria alla quale non dovrebbero appartenere.

In quest’ottica, questa antipatia per il maledetto “gender” – che, ripeto, giuro che vuol dire “genere” in inglese, niente di più e niente di meno – altro non è che l’ennesima battaglia contro dei mulini a vento. Questo concetto è in realtà liberatorio e la sua introduzione andrebbe sostenuta e incentivata in quanto rende poco credibili categorie ed etichette che vorrebbero elevarsi a rango di leggi biologiche. La nostra identità di genere è nostra soltanto e dovremmo essere in grado di utilizzarla e modellarla a nostro piacimento, senza doverci necessariamente inserire in una o nell’altra categoria di genere. Perché voler vivere in un mondo stereotipato popolato da Action Men e Barbie quando l’umanità ha questa incredibile e meravigliosa inclinazione verso la diversità?



Per chi volesse saperne di più, Judith Butler ha scritto una pluralità di libri, non solo Gender Trouble, ma si tratta di letture perlopiù difficili se non persino ostiche. Nel caso in cui qualcuno volesse avere delucidazioni in merito ad aspetti specifici della sua filosofia, qualche matto ha creato questa pagina (in inglese) che spiega delle sue teorie tramite gattini. Ah, che bello l’internet!

sabato 29 ottobre 2016

Aspera

Ecco qua un altro monologo sulle orme de 'Il fabbro', 'Alba', 'Nuvole', 'Risveglio' e 'Los'. Come sempre, sarò più che contento di leggere qualsiasi tipo di feedback in privato o in un commento su qualsiasi piattaforma.


Quanti uomini si sono ritrovati sotto la volta stellata a riflettere, a passeggiare, a scaldarsi attorno ad un fuoco attendendo che la notte passasse. Quante storie ha conosciuto quell’entità che ci osserva da lassù, quanti abbozzi, quante cancellature, quanti equilibri precari ha scrutato attraverso questa immensa distanza.
Questo bosco rumoreggiante mi circonda; in lontananza, il quieto scrosciare di un fiume accompagna il canto della notte. In alto, appesa, sta la luna, con la sua luce fioca di giorno e brillante nelle ore più buie. Tutte intorno a lei delle stelle, distanti, rimangono conficcate in questo manto di un blu oscuro, opaco, inscrutabile. Le loro luci paiono ora disegnare un volto femminile riflesso in una finestra, ora una carrozza in fuga attraverso la città, ora ancora una stazione affollata.
Il primo, crucciato, osserva l’orizzonte inarrestabile distendersi davanti al suo sguardo. La giovinezza è ancora florida in questa acerba ragazzina che indossa abiti da donna. Il suo matrimonio è caduto in rovina e si ritrova a fare i conti con spettri domestici che non sa come approcciare. Pensa alla sua svanita progenie, che non la riconosce, che è stata addestrata a non mostrarle più l’affetto di un tempo. Là fuori, gli sguardi si voltano su di lei per poi cercare altri soggetti d’interesse nel momento in cui lei avvicini un dialogo. La sua vita in società si è rivelata breve, pertanto torna in quell’eterno rifugio, l’infanzia, così ben condensato in quell’altalena ormai logora che scricchiola in giardino. Non è più tempo di svaghi bambineschi. La commozione, talvolta in un’eruzione disperata, talaltra sofferta in solitudine, le riga il volto.
Una carrozza, nel frattempo, fugge in tutta fretta tra le strade della provincia. La passione la irradia, l’ansimare di due corpi vestiti in abiti socialmente opportuni gonfia l’ossigeno di segreti che fanno tremare le labbra di qualsiasi donna. La mente di lei è popolata da personaggi fittizi, da prìncipi stranieri che la portano in reami dipinti coi colori dell’immaginazione. Le sue labbra rilasciano già l’odore di inchiostro che diventerà la manifestazione della sua condanna. In questa carrozza, in questo momento del giorno, in questo preciso hic et nunc si trova lei mentre maneggia le redini di un atto che finirà nel solito modo, e mai in quello sperato. La sua mente prospera nell’anticipazione del futuro, ma arranca in quel tumultuoso torrente tra presente e passato. A casa, un marito ingenuo la attende; una figlia poco amata cerca l’affetto materno in sogni tanto distanti dalla realtà; la madre, intanto, si aggiusta il vestito, amareggiata dall’eterno riaffiorare di desideri di appartenenza ad un altrove fittizio.
In stazione, la folla, incredula, si avvicina a dei binari bagnati da sangue adultero. Le parole si perdono in un tumulto di rumori indistinti. Gli sguardi stentano a raccogliere ciò che rimane di una donna che ha strofinato la purezza del matrimonio con un panno mal ridotto. I gesti, giudici che hanno scritto la condanna su una fronte ormai inesistente, perdono ogni significato davanti all’atrocità della morte spontanea. Lembi di pelle avvizziti dall’eccessiva violacea preoccupazione ricoprono dei freddi, inermi binari, inadeguati ad ospitare nel loro grembo la sacralità di una vita socialmente mal spesa. Congetture riempiono il silenzio generato da un atto estremo che la società stenta ad osservare. Il vociare continua, stavolta al centro del palco, mentre in lontanza rimane, offuscata, la presenza di una donna consumata dalla gelosia e da un amore sanguinante.
Tre donne, tre destini, tre stelle impareggiate in questa volta lucente. Loro là sopra, io qua, sola, mentre contemplo le loro storie ben conosciute. Le braci ardono, ma ancora per poco. Questo maestoso albero riflette la luce calda davanti a me, mentre lassù il grande gelido blu paralizza l’aria. La mia mente rimane sospesa a mezz’aria, non si risolve di raggiungere quegli astri così distanti, ma si rifiuta di restare ancorata a questa terrena esistenza. Così resto a contemplare vite altrui, fittizie, appartenenti ad un passato che non è mai stato, senza poterle raggiungere. Poco importa, in fondo, se rimango tra narrato e vissuto, tra immaginazione e realtà. Questa selva oscura mi ricorda immancabilmente l’asprezza del vivere; attraverso questa mi proietto nella contemplazione di vicissitudini che non potrebbero in alcun modo appartenermi, se non in quanto narrate. Così mi preparo ad un nuovo vivere, ad un nuovo narrare a me stessa ciò che accade. I protagonisti sono del tutto indifferenti: Effi, Emma, Anna, Crampas, Léon, Vronskij. Mio marito, che dorme nella tenda, ignaro della mia assenza. I miei figli, abbracciati dal soporifero manto della notte in quel posto che chiamano casa. L’amante, abbandonato nel bosco del peccato, nel buio dell’adulterio. La traditrice, l’adultera, che contempla storie parallele e si crogiola in sentimenti tanto simili quanto distanti.
Una folata di vento gelido mi soffia sulla schiena, l’oscurità mi arpiona le interiora, del caldo sangue scuro mi ricopre come velluto rosso. Le mie mani si avvicinano alle braci ardenti per trarne energia e calore, il mio corpo si raccoglie in una sfera di carne per ripararsi da questa asprezza che mi circonda. Un singhiozzo irrompe nel silenzioso canto notturno, mentre piccole, pallide perle scavano il mio viso. L’opacità del mio volto diventa trasparenza, le mie colpe si districano dalle mie scapole e mi aleggiano ora intorno come personaggi di romanzi ottocenteschi. Le braci vengono calpestate, oppresse, soffocate. Le mie mani si ritirano spaventate, mi coprono il viso con un velo di carne infreddolita, mentre davanti a me le ombre delle mie azioni improvvisano un’esibizione grottesca.
Una mano ossuta, scheggiata di artigli affilati, allunga la sua ombra sulla mia nuda nuca. Percepisco il freddo della sua vicinanza, anticipo il leggero graffio delle sue unghie sulla mia debole pelle, rabbrividisco al sol pensiero della violenza che potrei subire. Il mio cranio, attanagliato da una forza razionalmente inconcepibile, si solleva repentinamente: nel mio campo visivo si dipana l’indifferenza in molteplici forme. Il bosco, stoico spettatore del mio peccato, rimane quieto, opaco, oscuro. La portatrice di consigli mi avvolge in una consapevolezza nuova, finora solamente osservata tra gli astri: “L’adultère, c’est moi”.

domenica 4 settembre 2016

Los*

Posto qui sotto un altro monologo interiore / mini-racconto sul modello de 'Il fabbro', 'Alba', 'Nuvole' e 'Risveglio'. Qualsiasi tipo di feedback è più che apprezzato.

© Elena Pagnoni Photography


Osservare le persone ha sempre esercitato un certo fascino su di me. Guardarle camminare per la strada con quel passo affrettato di chi è in ritardo per l’imminente lezione di filologia germanica o di chi ha ricevuto una delusione troppo grande per rimanere sotto l’occhio pubblico ancora a lungo; guardarle interagire tra di loro, ridere degli errori altrui, saltellare allegramente in un pomeriggio domenicale o trascinarsi a casa dopo una notte brava in discoteca; guardarle pranzare sontuosamente attraverso il vetro di una brasserie, osservarle masticare carne con disinvoltura e con un grande senso di civiltà. L’umanità è lo spettacolo migliore a cui possiamo assistere. La lente pubblica non permette a nessuno di passare inosservato e io, in fondo, non sono tanto diverso. Li osservo nei loro gruppi selezionati come in quelli circostanziali, li guardo nella loro pacifica solitudine come nel loro goffo stare insieme.
È questo stare insieme, forse, ad avermi sempre creato problemi. Il perpetuo convivere con l’altro, la continua lotta di capirlo, lo stesso identico risultato ogni volta. Pensi di aver fatto breccia nel suo nucleo ma poi improvvisamente ti accorgi di esserti perso un satellite. Fai quindi un passo indietro, lo osservi, noti dei pezzi, delle parti mancanti, oscure, opache. Non riesci ad avere una visione d’insieme, pur sapendo che una singola parte non significa nulla da sola. Allora ricomponi quel puzzle con dei tuoi pezzi, meglio che puoi, riarrangiandoli in combinazioni sempre nuove. Ciò che manca lo completi, così, giusto per dare una sagoma meglio definita a quell’enigma. Comprendi le sue parti ma non concepisci nemmeno la sua interezza.
Impari ad osservare, a stare in disparte, a svincolarti dalle dinamiche sociali per avere una visione migliore, cerchi insomma di creare tra te ed esse una distanza tale da permettere il giudizio e la critica. Inizi a girarci intorno come ad una statua su un piedistallo sopraelevato in un museo, osservandola da diverse angolazioni ma pur sempre dalla tua modesta altezza. Pensi di comprenderla in toto, di averne studiati i minimi dettagli, ma dimentichi di non essere in grado di osservarla dall’alto. Non riesci a collegare i pezzi, sei incerto sull’aspetto della parte di quella statua che è rivolta verso l’alto. È in questa incompletezza di giudizio che procedi al completamento del cerchio, alla rimozione di quell’incertezza che è condizione necessaria del tuo osservare. Allo stesso modo in cui io osservo i passanti e immagino che siano in ritardo per una lezione di filologia germanica o leggo sul loro volto una delusione difficile da contenere, tutti noi completiamo le immagini degli altri a nostro piacimento, tra elementi reali e collegamenti immaginari. Creiamo dei personaggi nella nostra mente, diventiamo per un attimo drammaturghi e li mettiamo in scena. “Vediamo che succede se metto insieme un ragazzo ritardatario con uno dal cuore spezzato, chissà cosa succederebbe se il primo si rivelasse la causa scatenante del dolore del secondo, che in realtà lo starebbe quindi inseguendo per cercare vendetta.”
E allora ci raccontiamo delle storie su ciò che ci circonda, ce ne convinciamo, confondiamo mito e realtà, vissuto e raccontato, li fondiamo in un insieme organico, in diverse combinazioni, sempre più avvincenti, sempre più convincenti. Ecco qua la vita: un continuo tentativo di costruire impalcature per sorreggere dei frammenti di una realtà insondabile. Come degli archeologi che mettono insieme i pezzi di un tempio romano, aggiungendo qua e là delle parti in mattone, giusto per collocare tutto al giusto posto. E tuttavia, l’insieme è ancora frammentario, è lasciato in parte all’immaginazione dell’osservatore, senza che questo, quindi, possa recepire un messaggio univoco. E anche in questo sta la difficoltà infatti, comunicare all’altro, rendere un passivo ricevere una continua interazione. Perché anche lui, come te, faticherà, stenterà, magari in parte si rifiuterà. Come possono due esseri così incompleti interagire così perfettamente? Questa mancanza, questa incompletezza, questo essere in dubbio è in fondo il nostro destino, quello che ci condiziona nell’assoggettarsi a questa rete sociale. È parte della nostra libertà negata ai fini del contratto sociale ed è pertanto parte integrante della nostra condizione. Mancanza e destino così intrinsecamente legati, chi l’avrebbe mai detto?
Arriva un certo momento della vita in cui lo realizzi, lo noti intorno a te, inizi a raccontarti storie al riguardo e quindi adotti l’unico approccio che possa darti una forma di libertà: te ne vai. Vedi questi fili che prima erano invisibili, li tagli di netto, inizialmente è strano, fa male. Ti ritrovi su una fredda strada ad osservare i passanti. Inizialmente li sdegni, ti fai beffa del loro vacuo passare, sogghigni davanti ai loro fallimenti, alla loro casualità, al loro essere parte di un enorme e futile formicaio. Poi inizi a realizzare che quel dolore iniziale non era solamente psicologico, quei fili erano in realtà dei tuoi nervi, sottili, che si diramavano verso gli altri, verso il mondo, permettendoti di percepire la loro umanità e incompletezza, consentendoti di accedere ad un piano diverso in cui le incertezze magicamente si dissipano. Ti ritrovi svincolato dalla gente, perdi l’esperienza dello stare al mondo, dimentichi come ci si senta, come quando un anziano cammina per il parco e vede dei bambini andare su quelle giostre circolari che girano; li vede girare e girare, ridere, impanicarsi per la velocità eccessiva, quindi rallentare. Così io continuo a camminare, senza provare più molto. Questo è il cammino intrapreso, questa la mia scelta, questa la mia attuale condizione. Mancanza, destino, via.
La mia vita è su una strada al di fuori della società, al di fuori della norma. Sono l’autoesiliato che vive nell’osservare la propria patria. Questo imperfetto osservare mi rende uno spettatore che riesce a vedere solo alcune scene e che quindi si eleva a drammaturgo per dare loro una forma più consona, più regolare, più afferrabile col pensiero. Ma in fondo, anche questa è una delle mie storie.



*Los in tedesco è un suffisso che indica mancanza, in parole come “wortlos” (Wort = parola, + -los = mancanza; “senza parole”) o “namenlos” (Name = nome, + (-n) + -los = mancanza; “senza nome, anonimo”). Come sostantivo, das Los, significa destino, ciò che ci tocca in sorte. Los è anche un prefisso per verbi separabili, nel quale contesto significa generalmente “via”; indica un partire, un allontanarsi, come nel caso del verbo “losgehen” (los- = prefisso, + gehen = andare; “andare via, andarsene”). Interessante, poi, che questo stesso verbo, andarsene, in tedesco voglia anche dire cominciare. Jetzt geht’s los, ora si comincia.

mercoledì 31 agosto 2016

Risveglio

Dopo un po' di tempo, son tornato con un racconto breve sul modello de 'Il fabbro', 'Alba' e 'Nuvole' (e, almeno in parte, 'Σίσυφος (Sísyphos)'). Come sempre, commenti e feedback di qualsiasi tipo sono più che apprezzati.





Risvegliarsi da sogni imbarazzanti, ritrovarsi in un letto, da soli, senza via di fuga. Sentirsi gli occhi gonfi di lacrime non versate. Fare colazione con la nausea accanto a te che ti accarezza, che ti dice che hai proprio una faccia da schifo stamattina. Continua a farti discorsi, a chiederti che fine abbia fatto il tuo sonno di bellezza, dove sia finito il tuo bel viso truccato e curato della serata precedente, dove tu abbia lasciato la voglia di vivere. Non senza ironia. “Ti sei tolta il trucco per portare questa miserabile maschera di sofferenza? Suvvia, sei giovane, la vita è bella alla tua età”. Ora inizia a sembrare tua madre, la tua vicina di casa, una amica di tua zia. Ti propina luoghi comuni sulla felicità. “Tu non vedi ciò che vedo io” le rispondo, pentendomene immediatamente, cogliendo una sfacciataggine bambinesca che non mi rappresenta. “Sei solo una ragazzina viziata” riprende lei, “Non apprezzi un briciolo della fortuna che hai! Ci sono ragazze che soffrono per il loro fisico, per il loro aspetto, per come le vedono gli altri, e tu guardati! Quelle gambe, quel viso perfettamente calibrato e modellato alla perfezione. Non hai proprio nulla di cui lamentarti”. Penso a quell’uccellino nella gabbia di cui parlava Van Gogh in una lettera al fratello, a quanto le nostre vite viste da fuori possano sembrare tutto tranne quello che sono realmente. Da fuori tutto ciò che si vede è una facciata vuota, su cui gli altri proiettano una felicità che in realtà non ci appartiene. Penso al paragone con il camino: dentro, un fuoco scoppiettante, fuori, del fumo che esce dal camino. Da fuori, un uccellino in gabbia con tutto ciò che potrebbe desiderare nella sua limitata visione della vita: cibo, ammirazione, magari qualche carezza, tanto affetto. Da dentro, un uccellino in gabbia a cui tocca costantemente vedere la grande migrazione dei suoi simili passare davanti alla finestra, istinti che è costretto a reprimere, ignorando la primavera che intona un canto altisonante.
In questi giorni risvegliarsi è come finire la morfina in corpo. Il cervello si attiva, gli occhi si aprono, il dolore torna a fluire. Come se fosse quest’ultimo a dettare quando sono sveglia e quando invece dormo, cullata da incubi che sogghignano incessantemente. Perlomeno quando sogno sono in un altro mondo, qualcosa che mi appartiene, nel bene e nel male. Quando mi ritrovo, come ogni giorno, tra queste candide lenzuola profumate, subentra una sensazione di essere nel posto sbagliato, il disagio e lo sconforto irrompono nella serenità che solo la notte sa portarmi. Scosto le coperte, mi alzo senza slancio, mi ritrovo seduta su un lato del letto, quello di fronte allo specchio. Di nuovo quella faccia, quella maschera di sofferenza che indosso costantemente in periodi come questo. Di nuovo quel corpo da pubblicità su riviste giovanili, di nuovo la nausea di essere me stessa e non quell’immagine di me che gli altri si divertono tanto a vendere. Un singhiozzo rompe il mio viso equilibrato come a ribadire l’importanza capitale che questa malattia dello spirito ha ormai assunto nella mia vita.
Mi sento addosso una stanchezza esistenziale impareggiata da ore passate a camminare su una passerella con addosso i vestiti più assurdi, con le espressioni più seducenti e felici che il mio viso mai conoscerà, ore passate ad esibire non soltanto un bel corpo, ma anche e soprattutto una presunta felicità sociale e lavorativa che non mi appartiene in alcun modo. Giorno dopo giorno mi ritiro in questa mia tana per abbeverare i miei demoni con il mio sangue. Questi si contorcono ed emettono grugniti mentre il mio sangue scorre inesorabilmente dalle mie vene, si avvicinano senza curarsi della mia incolumità, si nutrono di me e dei miei venticinque anni. Calde lacrime si annidano negli angoli dei miei occhi, mi impediscono di vedere ciò che succede e, almeno in questo, trovo conforto.
Come sono arrivata fin qui? Chi mi ha trascinato in questa arena di sconforti e fatiche? Dove trovo l’uscita verso un mondo confortante? Esiste un modo per deviare da questa rotta che mi porta in lande desolate, verso un’arsura che le mie forze non riescono in alcun modo a temperare? Come sacrificai la mia vita sull’altare dell’equilibrio e dell’armonia estetici? Come porre rimedio ad un azzardo? Domande che mi assillano, che pongono la mia mente sotto assedio ormai da anni. I viveri iniziano a scarseggiare e questo assedio non pare voler terminare.
Come ogni mattina, mi preparo. Ricopro il mio corpo di vestiti costosi, di profumi intensi, di accessori sfavillanti per celare un po’ più in profondità questa miseria esistenziale. Esco di casa e noto l’inutilità delle nostre apparenze, la necessità di esibire una serenità che spesso non ci appartiene, il bisogno viscerale di avere rapporti umani, di scambiare parole, per quanto vacue, con individui di cui temiamo il giudizio, senza diritto di deroga. Vedo i binari che mi conducono verso le solite consuetudini, le stesse marmoree leggi che giorno dopo giorno mi fanno affondare nella disperazione. Deragliare dovrebbe essere un diritto di tutti. Scostarsi per un attimo da questo cammino di strazi per poter vedere altro, per cercare qualcosa, ma senza mai trovarla. Per essere semplicemente cercatori, per evitare questo fardello sociale ed esistenziale, per costruirsi un proprio spazio vitale senza necessariamente intaccare quello degli altri. Tagliare i fili che ci legano agli altri per poter operare le proprie scelte senza dover necessariamente agire in questa trappola della normalità e delle apparenze.
“Alice!” sento chiamare dietro di me. Mi volto. Una mia collega mi abbraccia, capelli perfetti, sorriso inattaccabile, voce squillante. Dentro di me la ringrazio, mi stavo dimenticando della mia apparenza. Altro giorno, stesso gramo ruolo su questo palcoscenico. Passati gli inconvenienti, alzo gli occhi al cielo: uno stormo di uccelli migratori taglia longitudinalmente questo azzurro cristallino. Emetto un sospiro e mi focalizzo nuovamente sulla mia direzione: si torna in scena.

mercoledì 20 luglio 2016

I miei Autori: Hermann Hesse

Hermann Hesse nasce il 2 luglio 1877 a Calw, in Baden-Württemberg, da famiglia pietista di origine sveva e baltica. Verso la fine della sua carriera, nel 1946, fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Ciononostante, si tratta di un autore a cui molto spesso la germanistica di stampo classicista non riconosce piena dignità letteraria, probabilmente in vista del carattere spesso autobiografico e adolescenziale dei suoi testi.

Hesse pone infatti al centro della sua opera la ricerca di sé. Questo è visibile non soltanto in romanzi per così dire spirituali come Siddharta, ma è percepibile in diverse misure in tutta la sua opera: protagonisti delle sue storie sono spesso ragazzini alla ricerca del loro equilibrio e di un sereno stare al mondo. Il superamento delle crisi esistenziali è una parte fondamentale del percorso che viene sviluppato all’interno dell’arco narrativo, tant’è vero che la sua opera più ambiziosa, Das Glasperlenspiel (in italiano, Il giuoco delle perle di vetro) del 1943, viene spesso additata, tra tante altre, come un Bildungsroman (letteralmente, ‘romanzo di formazione’) o una versione alterata di esso.

Il suo stile tocca molto spesso toni lirici e personali che sanno far breccia nel lettore e che sono in grado di comunicare con la sua parte più umana e spirituale. Hesse attinge spesso ad una sorta di versione migliorata di noi stessi, credendo di fatto che ci sia un io migliore all’interno di ognuno di noi che aspetta di schiudersi ed aprirsi al mondo. È in questa poeticità, in particolare contrasto con l’orrore della guerra e con la crudeltà del mondo, che Hesse, a mio avviso, acquista particolare rilievo. All’interminabile e sempre migliorabile ricerca di sé, di un io migliore, infatti, questo autore sa attribuire una funzione cardine in ogni individuo, per ricordarci in fondo che non siamo solamente una persona, una maschera, ma che siamo in continuo divenire, proprio come il fiume in Siddharta. La nostra evoluzione non si può e non si deve arrestare mai, dobbiamo essere, come suggerisce in questo romanzo, dei ‘Suchende’, dei cercatori, instancabili ed orientati verso la nostra evoluzione.

In un’opera successiva, Der Steppenwolf (in italiano, Il lupo della steppa) del 1927, Hesse si dedica ad un protagonista per lui piuttosto atipico: si tratta, infatti, di un uomo di mezza età che ha deciso di suicidarsi il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Per quanto i tratti autobiografici siano evidenti anche in questo Harry Haller, le cui iniziali richiamano in modo lampante quelle dell’autore, il lettore si trova tuttavia davanti un protagonista che ha già compiuto un percorso e che ha già raggiunto determinate conclusioni circa la sua vita. Queste conclusioni vengono riassunte in un ‘Traktat’ (generalmente tradotto in italiano come ‘dissertazione’) che tocca in particolar modo il rapporto problematico con la borghesia e la conflittualità presente in Harry: egli, infatti, presenta due personalità in perenne lotta tra di loro, ossia l’uomo e il lupo. Mentre l’uno lo spinge alla civiltà e lo rende di fatto parte integrante della borghesia, dell’ordine civile e del decoro che domina questo strato sociale, l’altro gli impedisce di accettarlo totalmente, lo incoraggia effetivamente a rinnegare questa parte di sé e mette a nudo tutte le ipocrisie che sono parte fondante di una classe sociale orientata al profitto, a dei dubbi valori e ad una vita ordinaria e catalogata. Il romanzo, quindi, nonostante la sua atipicità, rappresenta di fatto la risoluzione di una crisi ed è quindi in linea con la poetica hessiana.
Un frame dal film Steppenwolf di Fred Haines (1974)

Premessa fondamentale del superamento di una crisi in Hesse, come nella vita, è il confronto con l’Altro. Spesso, infatti, questo autore tedesco propone due poli in contrasto tra di loro, la sintesi dei quali genera un senso di serenità e permette al protagonista, in particolar modo, di raggiungere un io migliore, più alto, per quanto brevemente. Questo, cionondimeno, non significa che Hesse abbia scritto unicamente romanzi dal finale positivo ed ottimista, anzi, spesso i finali sono amari o finiscono in tragedia; tuttavia all’interno della narrazione è sempre presente un momento positivo generato precisamente dall'incontro-scontro di due forze opposte: in Der Steppenwolf queste sono racchiuse nel protagonista stesso, ma più tipicamente queste vengono incorporate in due distinti personaggi, come in Demian possono esserlo Emil Sinclair e Max Demian, o in Unterm Rad (in italiano, Sotto la ruota) Hermann Heilner e Hans Giebenrath, o ancora, in modo più lampante, in Narziß und Goldmund (in italiano, Narciso e Boccadoro) i due personaggi eponimi. La polarità tipica di Hesse è quindi premessa fondamentale del percorso verso un io migliore.

Richard Ziegler, 'Hermann Hesse' (1950)
© Richard-Ziegler-Stiftung Calw
Un discorso poi spesso trasversale è quello della psicanalisi, in particolare quella di Carl Gustav Jung. Con la scoperta di questa, infatti, Hesse fu in grado di ascrivere uno spessore scientifico a determinati rapporti all’interno della sua opera. Primo esperimento in questo campo è quello di Demian, del 1919, ma il suo interesse per e studio della psicanalisi non scemerà nemmeno negli ultimi anni in cui è la guerra a prendere il sopravvento. Dalla remota Svizzera, così simbolicamente lontana dalle grida sofferenti dei soldati e dalla devastazione subita e perpetrata dalla Germania nazista, Hesse compirà il suo testamento spirituale e letterario condensando in un Bildungsroman di qualche centinaio di pagine un mondo pacifico improntato alla cultura e all’erudizione chiamato Castalia. È in questa pace e in questo otium litteratum che immaginiamo il vecchio Hermann negli ultimi anni della sua vita – ed è precisamente in questi ultimi anni che il mondo si sdebita del suo contributo alla germanistica e alla letteratura europea e mondiale attribuendogli il premio Nobel per la letteratura.


Ciò che più mi attrae di Hermann Hesse è il suo saper essere leggero, spirituale, a tratti ottimista, ma al contempo anche caustico e critico del mondo moderno. Al suo pacifico sguardo penetrante il mondo non può sottrarsi, per quanto possa celare dietro alle sue tante illusioni delle atrocità inenarrabili. Queste divengono parte della narrazione nell’oeuvre di Hesse, il quale addita in lontananza ‘die kalte Welt der Anderen’ (“il freddo mondo degli Altri”), come lo chiama in Demian, ma al tempo stesso ci accompagna verso un percorso tortuoso e accidentato che ha per meta la ricerca stessa del proprio io e del proprio spazio all’interno di un mondo freddo ed indifferente, se non crudele. Una ricerca – e su questo convengo con il caro Hermann – che è tanto astrusa quanto essenziale al nostro vivere quotidiano.

domenica 19 giugno 2016

I miei Autori: Franz Kafka

Franz Kafka è indubbiamente uno dei più importanti scrittori della letteratura mondiale. I suoi racconti e romanzi informano l’immaginario collettivo da diversi decenni, tanto da aver lasciato ai posteri non soltanto il termine “kafkiano”, che denota quell’atmosfera straniante e inquietante tipica dei suoi scritti, ma anche e soprattutto una serie di situazioni e scenari che esprimono appieno l’angoscia esistenziale tipica del Novecento.

Franz nasce a Praga, in Repubblica Ceca, il 3 luglio 1883 da una famiglia di origine ebraica. La sua prima lingua rimane però il tedesco, che coltiverà sia durante la sua formazione giuridica che durante la sua successiva – e breve – carriera lavorativa in campo assicurativo. Svolgendo questa professione a tempo pieno, si lamentava spesso di poter usufruire di poco tempo per scrivere, tanto da restare spesso sveglio di notte per scrivere ciò che fluiva naturalmente da lui. Il suo lavoro veniva considerato da Kafka stesso come un Brotberuf (letteralmente, “lavoro del/per il pane”), ossia come una professione atta al mantenimento economico di lui e della sua famiglia. A ciò si opponeva la sua scrittura quasi automatica, viscerale, che era al contempo la valvola di sfogo e il metro di misura della sua personalità.

Il conflittuale rapporto con il padre è forse una delle poche punte dell’iceberg conosciute alla quasi totalità delle persone. Basta addentrarsi in pochi racconti – e per giunta tra i più famosi – per ritrovare questo attrito padre-figlio traslato su una storia verosimile con nomi significativi che rimandano a quello dell’autore stesso. Tutto ciò emerge in maniera ancora più esplicita nella famosa Lettera al padre, che è ormai l’elemento di punta di questo aspetto di parte dell’opera di Kafka.

Quanto – e come – effettivamente questo malo rapporto abbia influito sulla sua visione del mondo è stato provato più e più volte da diversi critici: ricordo, per esempio, un articolo di uno psicanalista che si era interessato alla vita e all’opera di questo importante ed influente scrittore del primo Novecento europeo e aveva suggerito che il suo rapporto conflittuale con il padre fosse alla base del suo forte senso di colpa che trapela – e anzi prorompe – in gran parte delle sue opere, se non vogliamo considerare le lettere. Sosteneva, infatti, che il piccolo Kafka, da bambino, in una fase quindi estremamente caratterizzante e vulnerabile del suo sviluppo, avesse vissuto in un mondo in cui la punizione paterna avveniva non tanto per correggere un’azione sbagliata, quanto piuttosto secondo schemi imprevedibili e assurdi. Il risultato di ciò è pertanto una visione estremamente crudele del mondo, un caos malvagio che punisce secondo leggi indecifrabili.

Questa legge, d’altronde, compare più di una volta negli scritti di Kafka: è quella stessa legge che punisce tutti senza dare possibilità di appello, una legge secondo cui la condanna deriva direttamente dal sospetto e dall’accusa e secondo cui essa viene trascritta direttamente nella pelle dell’imputato ignaro della propria colpa, come nel racconto ‘In der Strafkolonie’ (in italiano, ‘Nella colonia penale’). Si tratta di una legge impenetrabile, come ci spiega ‘Vor dem Gesetz’ (in italiano, ‘Davanti alla legge’) e come viene poi ripreso da uno dei tre Romanfragmente (letteralmente, ‘frammenti di romanzi’) Der Prozess (in italiano, Il processo). Nel mondo di Kafka, insomma, l’accusa non è mai infondata e viene immediatamente seguita dalla condanna senza che l’imputato abbia possibilità di difendersi e far valere le proprie opinioni.

(Intervallo di simpatia)
Ciò che ne consegue è pertanto un annichilente senso di colpa che permea il protagonista checché egli abbia compiuto. Questo si nota, per esempio, in uno dei racconti più famosi di Kafka, ‘Das Urteil’, tradotto generalmente in italiano come ‘La sentenza’, dove il mondo del figlio viene capovolto in poche righe dalle parole irate di un padre malato e debole. Tuttavia, questo senso di colpa emerge anche in un’altra forma, specialmente nelle opere successive al 1916, anno di svolta secondo il critico e primo vero editor degli scritti kafkiani Malcolm Pasley. Dai temi della pena e della colpa si passa, secondo questo importante critico, al tema della responsabilità per un compito spirituale. Se questo sia vero o no è una questione di interpretazione, come succede spesso per un autore così enigmatico e insondabile come Kafka. Io personalmente ritengo vera quest’affermazione, pur riservando di fatto uno spazio piuttosto importante a quel senso di colpa che è così caratteristico di Franz e della sua Weltanschauung anche nella seconda sezione della sua opera. È indubbio, a mio avviso, che ci sia un senso spirituale, un desiderio di trascendere la realtà per portare a termine un compito non meramente terreno; tuttavia, se anche questo compito è presente, i protagonisti dei racconti e dei romanzi di Kafka si ritrovano impossibilitati ad adempiere a una tale agognata funzione che potrebbe elevarli al di sopra della gretta e crudele realtà nella quale sono inseriti. Si pensi, a titolo esemplificativo, al racconto ‘Der neue Advokat’ (‘Il nuovo avvocato’), dove a fare da protagonista è ciò che soleva essere il destriero di Alessandro Magno, che ora, persa una vera e propria guida, una spada unica che sappia indirizzare i suoi sforzi, ha deciso di dedicarsi alla giurisprudenza, allo studio dei libri di legge come mansione pratica e sicuramente meno insoddisfacente dell’inseguire un compito spirituale non meglio specificato. O, se aiuta, basti pensare a Das Schloß (Il castello), al cui protagonista, K., viene affidato il compito di agrimensore pur essendo di fatto impossibilitato ad accedere a quella grande e ominosa struttura che sovrasta la città. Il romanzo narra per l’appunto dei vani tentativi del protagonista di avvicinarsi al castello, tant’è vero che di fatto ogni capitolo è l’inizio di una nuova fallimentare impresa.

Questo sicuramente porterà alla mente il mito di Sisifo, condannato a far rotolare su per una pendenza una pietra solamente per vederla rotolare dall’altra parte per tutta l’eternità. Non è un caso che lo scrittore francese del secondo dopoguerra Albert Camus si sia interessato a Kafka e alla sua opera, oltre che a questo noto personaggio della mitologia greca. In un saggio dedicato all’autore de Il processo, Camus suggerisce argutamente: “le monde de Kafka est à la vérité un univers indicible où l'homme se donne le luxe torturant de pêcher dans une baignoire, sachant qu'il n'en sortira rien” (“il mondo di Kafka è in verità un universo indicibile in cui l’uomo si permette il torturante lusso di pescare in una vasca da bagno sapendo che non ne caverà nulla”). Ciò che ne consegue è un senso di colpa e frustrazione che si lega molto bene a quello che informa la prima parte dell’opera di Kafka – senso di colpa che diventa pertanto il fil rouge dell’opera kafkiana anche se vogliamo accettare la tesi di Pasley.

Una pagina di un manoscritto (kafka.org)
Questo critico, come ho accennato sopra, fu il primo vero editor dei manoscritti di Kafka. Infatti, essi vennero destinati alle fiamme dal loro stesso autore, ma l’amico Max Brod decise che c’era qualcosa di valore e, fortunatamente, non rispettò il desiderio finale di Franz e procedette quindi alla pubblicazione senza avere davvero le competenze per mettere insieme i diversi frammenti scritti da Kafka. Quest’ultimo, infatti, aveva un modo estremamente singolare di scrivere: tutto ciò che abbiamo di suo è contenuto in tre o quattro quaderni che passano fugacemente da un racconto ad un altro, da un frammento di un romanzo ad altri scritti che non vi hanno nulla a che fare. Come suggerito sopra, Kafka seguiva un processo di scrittura automatica per cui tutto ciò che scriveva era dettato da una forza che prorompeva da dentro di lui – e non è un caso, infatti, che vedesse il libro come “un’ascia per il mare gelato dentro di noi” („Ein Buch muss die Axt sein für das gefrorene Meer in uns”). Ne risulta quindi un insieme di scritti estremamente caotico: basti pensare che del romanzo Il processo son stati scritti per primi il capitolo introduttivo e quello finale, mentre gli altri si trovano in pagine successive, motivo per cui esso viene considerato un frammento di romanzo pur avendo un inizio e una fine.

Di fronte ad un processo creativo tanto inverosimile quanto ingarbugliato nel suo avere un ordine poco sistematico, è chiaro che solamente un professore di letteratura tedesca, nonché critico letterario di successo, come Malcolm Pasley, Fellow e Tutor del Magdalen College dell’Università di Oxford, poteva fare ordine laddove l’amico scrittore di Kafka Max Brod aveva fallito. Egli, infatti, riportò i manoscritti kafkiani in macchina dalla Svizzera, dove erano custoditi in un caveau di proprietà dei discendenti di Kafka, fino alle Bodleian Libraries di Oxford e lì inizio a studiarli per curarne finalmente un’edizione propriamente detta dei romanzi e dei racconti. È così che nascono quindi i primi veri studi dell’opera kafkiana e, specialmente, di quei testi, come Il processo, che dipendono totalmente da decisioni di editing di terzi.

È proprio attraverso questi manoscritti confusi, corretti e ricorretti, che una personalità disturbata e geniale come quella di Franz Kafka continua a vivere. Il suo additare una realtà caotica, insofferente ed enigmatica è un monito imperituro a tutto ciò che esula dal nostro quotidiano affaccendarci e che deve essere notato, se non osservato. Da qui il mio amore per la sua personalità e la sua scrittura, tanto ostica quanto geniale, e da qui il mio desiderio di divulgare ciò che lui rappresenta per me, per la letteratura e per l’umanità intera.

giovedì 19 maggio 2016

I miei Autori: Virginia Woolf

George C. Beresford, 'Virginia Woolf in 1902'
Virginia Woolf nasce Adeline Virginia Stephen il 25 gennaio 1882 a Kensington, Londra. Viene considerata oggi una delle scrittrici più importanti sia del modernismo, movimento di inizio Novecento, sia più generalmente della letteratura inglese. La Woolf è passata alla storia, oltre che per i suoi fenomenali romanzi, anche per il suo impegno nella lotta femminista della prima metà del secolo scorso.

Dopo un primo momento di sperimentazione con racconti brevi, Virginia si dedica a romanzi più voluminosi, primo fra tutti The Voyage Out (1915), a seguire Night and Day (1920), Jacob’s Room (1922), Mrs Dalloway (1925), To the Lighthouse (1927), Orlando: a Biography (1928), The Waves (1931), The Years (1937) e Between the Acts (1941). Come si può notare anche solo dalle date di uscita dei romanzi, Virginia Woolf fu una scrittrice prolifica, che passava le giornate a leggere e scrivere. Ne è un sintomo anche la grande quantità di saggi da lei scritti su diversi temi, primi fra tutti quelli femministi e letterari. Tutti i suoi libri venivano pubblicato attraverso la Hogarth Press, una casa editrice fondata da lei stessa e suo marito Leonard Woolf, da cui Virginia prese il cognome com’era consuetudine ai tempi.

Figlia di un illustre personaggio del Vittoriano, la scrittrice londinese ha sempre sentito il peso della tradizione sulle sue spalle, che si trattasse di quella del realismo e della narrazione convenzionale dei testi del XIX secolo o quella più generalmente legata alla mentalità delle generazioni a lei precedenti. Virginia si oppose ad entrambe le influenze, pur sentendone fortemente il peso. I suoi romanzi sono spesso testi d’avanguardia, che si propongono di rompere con la tradizione stabilita dai periodi precedenti. Basti pensare che il suo terzo romanzo, Jacob’s Room, è pensato come una biografia di un protagonista, Jacob Flanders, che in realtà non ci è dato modo di conoscere. Questa idea deriva, da una parte, dal desiderio sempre forte della scrittrice di rivoluzionare la letteratura e avvicinarla alla vita: scrive infatti nel suo diario che questa volta intende lasciare tutto “crepuscolare”, senza alcun tipo di “impalcatura”, con “a malapena un mattone in vista”. Dall’altra, questa concezione di romanzo si rifà anche e soprattutto alla sua opinione secondo la quale è impossibile conoscere un’altra persona, poiché la mente altrui è impenetrabile. Nel romanzo, la narratrice – o, volendo, l’autrice stessa – dà voce a questi punti di vista diverse volte.

Nobody sees any one as he is, let alone an elderly lady sitting opposite a strange young man in a railway carriage. They see a whole – they see all sorts of things – they see themselves… (Jacob’s Room, Oxford: OUP, p. 36)

Nessuno vede qualcun altro com’è davvero, figuriamoci una signora anziana seduta di fronte ad un giovane sconosciuto nella carrozza di un treno. Vedono un insieme – vedono qualsiasi cosa – vedono loro stessi...

It is no use trying to sum people up. One must follow hints, not exactly what is said, nor yet entirely what is done – [...] (Jacob’s Room, Oxford: OUP, p. 37)

È inutile provare a riassumere le persone. Bisogna seguire degli indizi, non esattamente ciò che viene detto, neppure totalmente ciò che viene fatto – [...]

Anche lo stile di Virginia Woolf è particolare, frammentario, spesso ostico, simbolico. Si rifà di frequente a delle immagini per esprimere l’ineffabile e per contribuire alla caratterizzazione dei personaggi. Nel caso di questo terzo romanzo, di fatto come lettori conosciamo il protagonista solo attraverso la prospettiva di altre persone, dei posti che frequenta, degli oggetti che possiede. Diventa pertanto chiaro come la Woolf attingesse ad un genere del tutto tradizionale come quello della biografia per creare una “biografia di frammenti”, come la definì la sua più grande biografa, Hermione Lee, di fatto ampliando gli orizzonti di un genere così usuale, persino banale.

Un discorso parallelo e al contempo trasversale è poi quello femminista. Virginia, infatti, non poté frequentare l’università a causa dei numeri esigui di college e università aperte alle donne all’epoca. Attraverso suo fratello Thoby, tuttavia, riuscì ad avvicinarsi ad un insieme di studenti di Cambridge, con cui avrebbe poi fondato il Bloomsbury Group a Londra. Questo gruppo era famoso all’epoca per essere estremamente d’avanguardia: non solo raggruppava artisti e intellettuali del calibro di Lytton Strachey, Vanessa Bell, sorella di Virginia, Duncan Grant e John Maynard Keynes, ma i rapporti tra di loro erano spesso dettati da un desiderio di evasione dalle costrizioni sociali, tant’è che si dice – e ce n’è traccia nei diari della scrittrice – che ognuno si sentiva libero di sperimentare anche in campo sessuale con qualsiasi altra persona del gruppo, maschio o femmina che fosse.


Alcuni membri del Bloomsbury Group, tra cui Vanessa Bell e Lytton Strachey

























Quest’idea di libertà sessuale individuale, è inutile dirlo, era estremamente rivoluzionaria all’epoca, come lo era l’interesse di Virginia per il femminismo e la liberazione della donna da una società fatta di uomini. In uno dei suoi saggi di stampo femminista, nonché uno dei più famosi, la Woolf sostiene il diritto di ogni donna ad avere “una stanza tutta per sé” (in inglese, “a room of one’s own”) poiché questo consente ad ogni donna di assumere e curare una dimensione personale che trascenda i suoi obblighi morali di moglie e madre. Non a caso Virginia passava il suo tempo a scrivere, specialmente romanzi, racconti, saggi e lettere, nonché a leggere opere di diversi autori inglesi e non per poi scriverne delle recensioni.

Un altro aspetto caratterizzante della vita dell’autrice è senza dubbio la sua instabile salute mentale. Sentiva spesso delle voci, aveva attimi di profonda depressione seguiti da serenità e anzi occasionale felicità. Suo marito Leonard fece il possibile per aiutarla, trasferendosi qua e là in modo tale da cercare la pace della campagna o il caos della città per poterla tenere occupata; la fondazione della Hogarth Press rientra in questo tentativo di dare sfogo alla sua creatività, tant’è che tutti i suoi testi sono molto chiaramente privi di un vero e proprio lavoro di editing svolto da terzi: tutto ciò che ha scritto è passato solamente attraverso il suo filtro di scrittrice ed è probabilmente grazie a questo che possiamo godere del suo peculiare stile anche oggi senza tagli e censure di vario genere.

Com’è risaputo, Virginia Woolf si suicidò nel fiume Ouse il 28 marzo del 1941, lasciando dietro di sé grandi romanzi e la seguente lettera al marito:

Dearest, I feel certain that I am going mad again. I feel we can't go through another of those terrible times. And I shan't recover this time. I begin to hear voices, and I can't concentrate. So I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don't think two people could have been happier 'til this terrible disease came. I can't fight any longer. I know that I am spoiling your life, that without me you could work. And you will I know. You see I can't even write this properly. I can't read. What I want to say is I owe all the happiness of my life to you. You have been entirely patient with me and incredibly good. I want to say that – everybody knows it. If anybody could have saved me it would have been you. Everything has gone from me but the certainty of your goodness. I can't go on spoiling your life any longer. I don't think two people could have been happier than we have been. V

Carissimo, mi sento sicura che sto impazzendo di nuovo. Sento di non poter attraversare un altro di quei terribili periodi. E non rinsavirò questa volta. Inizio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi farò ciò che mi pare essere la cosa migliore da fare. Mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che una persona possa essere. Non penso che due persone possano essere state più felici finché non arrivò questa terribile malattia. Non riesco più a lottare. So di star rovinando la tua vita, so che senza di me potresti funzionare. E funzionerai, ne sono sicura. Vedi, non riesco neanche a scrivere questo per bene. Non riesco a leggere. Ciò che voglio dire è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato totalmente paziente con me e incredibilmente buono. Voglio dirlo, tutti lo sanno. Se qualcuno mi avesse potuto salvare quel qualcuno saresti stato tu. Tutto è scomparso da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso più continuare a rovinare la tua vita. Non penso che due persone possano essere state più felici di noi due. V


Con queste parole, Virginia prese congedo dal tiepido microcosmo che apparteneva a lei e a suo marito Leonard, ma al tempo stesso abbandonò anche quella realtà fortemente maschilista e assolutamente crudele che non poteva non vedere e anzi osservare ogni giorno. Attraverso i suoi scritti, la Woolf vive ancora, la sua aura è destinata a brillare intorno alla fiaccola del femminismo, dell’uguaglianza, del genio e della scrittura. Mentre lei affoga nel fiume appesantita da delle pietre nelle tasche, il mondo va avanti, dimentico di ciò che lei ha saputo lasciare. E noi ci troviamo qui a cercare di rimembrarla e a riconoscerle i meriti che le spettano.