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sabato 29 ottobre 2016

Aspera

Ecco qua un altro monologo sulle orme de 'Il fabbro', 'Alba', 'Nuvole', 'Risveglio' e 'Los'. Come sempre, sarò più che contento di leggere qualsiasi tipo di feedback in privato o in un commento su qualsiasi piattaforma.


Quanti uomini si sono ritrovati sotto la volta stellata a riflettere, a passeggiare, a scaldarsi attorno ad un fuoco attendendo che la notte passasse. Quante storie ha conosciuto quell’entità che ci osserva da lassù, quanti abbozzi, quante cancellature, quanti equilibri precari ha scrutato attraverso questa immensa distanza.
Questo bosco rumoreggiante mi circonda; in lontananza, il quieto scrosciare di un fiume accompagna il canto della notte. In alto, appesa, sta la luna, con la sua luce fioca di giorno e brillante nelle ore più buie. Tutte intorno a lei delle stelle, distanti, rimangono conficcate in questo manto di un blu oscuro, opaco, inscrutabile. Le loro luci paiono ora disegnare un volto femminile riflesso in una finestra, ora una carrozza in fuga attraverso la città, ora ancora una stazione affollata.
Il primo, crucciato, osserva l’orizzonte inarrestabile distendersi davanti al suo sguardo. La giovinezza è ancora florida in questa acerba ragazzina che indossa abiti da donna. Il suo matrimonio è caduto in rovina e si ritrova a fare i conti con spettri domestici che non sa come approcciare. Pensa alla sua svanita progenie, che non la riconosce, che è stata addestrata a non mostrarle più l’affetto di un tempo. Là fuori, gli sguardi si voltano su di lei per poi cercare altri soggetti d’interesse nel momento in cui lei avvicini un dialogo. La sua vita in società si è rivelata breve, pertanto torna in quell’eterno rifugio, l’infanzia, così ben condensato in quell’altalena ormai logora che scricchiola in giardino. Non è più tempo di svaghi bambineschi. La commozione, talvolta in un’eruzione disperata, talaltra sofferta in solitudine, le riga il volto.
Una carrozza, nel frattempo, fugge in tutta fretta tra le strade della provincia. La passione la irradia, l’ansimare di due corpi vestiti in abiti socialmente opportuni gonfia l’ossigeno di segreti che fanno tremare le labbra di qualsiasi donna. La mente di lei è popolata da personaggi fittizi, da prìncipi stranieri che la portano in reami dipinti coi colori dell’immaginazione. Le sue labbra rilasciano già l’odore di inchiostro che diventerà la manifestazione della sua condanna. In questa carrozza, in questo momento del giorno, in questo preciso hic et nunc si trova lei mentre maneggia le redini di un atto che finirà nel solito modo, e mai in quello sperato. La sua mente prospera nell’anticipazione del futuro, ma arranca in quel tumultuoso torrente tra presente e passato. A casa, un marito ingenuo la attende; una figlia poco amata cerca l’affetto materno in sogni tanto distanti dalla realtà; la madre, intanto, si aggiusta il vestito, amareggiata dall’eterno riaffiorare di desideri di appartenenza ad un altrove fittizio.
In stazione, la folla, incredula, si avvicina a dei binari bagnati da sangue adultero. Le parole si perdono in un tumulto di rumori indistinti. Gli sguardi stentano a raccogliere ciò che rimane di una donna che ha strofinato la purezza del matrimonio con un panno mal ridotto. I gesti, giudici che hanno scritto la condanna su una fronte ormai inesistente, perdono ogni significato davanti all’atrocità della morte spontanea. Lembi di pelle avvizziti dall’eccessiva violacea preoccupazione ricoprono dei freddi, inermi binari, inadeguati ad ospitare nel loro grembo la sacralità di una vita socialmente mal spesa. Congetture riempiono il silenzio generato da un atto estremo che la società stenta ad osservare. Il vociare continua, stavolta al centro del palco, mentre in lontanza rimane, offuscata, la presenza di una donna consumata dalla gelosia e da un amore sanguinante.
Tre donne, tre destini, tre stelle impareggiate in questa volta lucente. Loro là sopra, io qua, sola, mentre contemplo le loro storie ben conosciute. Le braci ardono, ma ancora per poco. Questo maestoso albero riflette la luce calda davanti a me, mentre lassù il grande gelido blu paralizza l’aria. La mia mente rimane sospesa a mezz’aria, non si risolve di raggiungere quegli astri così distanti, ma si rifiuta di restare ancorata a questa terrena esistenza. Così resto a contemplare vite altrui, fittizie, appartenenti ad un passato che non è mai stato, senza poterle raggiungere. Poco importa, in fondo, se rimango tra narrato e vissuto, tra immaginazione e realtà. Questa selva oscura mi ricorda immancabilmente l’asprezza del vivere; attraverso questa mi proietto nella contemplazione di vicissitudini che non potrebbero in alcun modo appartenermi, se non in quanto narrate. Così mi preparo ad un nuovo vivere, ad un nuovo narrare a me stessa ciò che accade. I protagonisti sono del tutto indifferenti: Effi, Emma, Anna, Crampas, Léon, Vronskij. Mio marito, che dorme nella tenda, ignaro della mia assenza. I miei figli, abbracciati dal soporifero manto della notte in quel posto che chiamano casa. L’amante, abbandonato nel bosco del peccato, nel buio dell’adulterio. La traditrice, l’adultera, che contempla storie parallele e si crogiola in sentimenti tanto simili quanto distanti.
Una folata di vento gelido mi soffia sulla schiena, l’oscurità mi arpiona le interiora, del caldo sangue scuro mi ricopre come velluto rosso. Le mie mani si avvicinano alle braci ardenti per trarne energia e calore, il mio corpo si raccoglie in una sfera di carne per ripararsi da questa asprezza che mi circonda. Un singhiozzo irrompe nel silenzioso canto notturno, mentre piccole, pallide perle scavano il mio viso. L’opacità del mio volto diventa trasparenza, le mie colpe si districano dalle mie scapole e mi aleggiano ora intorno come personaggi di romanzi ottocenteschi. Le braci vengono calpestate, oppresse, soffocate. Le mie mani si ritirano spaventate, mi coprono il viso con un velo di carne infreddolita, mentre davanti a me le ombre delle mie azioni improvvisano un’esibizione grottesca.
Una mano ossuta, scheggiata di artigli affilati, allunga la sua ombra sulla mia nuda nuca. Percepisco il freddo della sua vicinanza, anticipo il leggero graffio delle sue unghie sulla mia debole pelle, rabbrividisco al sol pensiero della violenza che potrei subire. Il mio cranio, attanagliato da una forza razionalmente inconcepibile, si solleva repentinamente: nel mio campo visivo si dipana l’indifferenza in molteplici forme. Il bosco, stoico spettatore del mio peccato, rimane quieto, opaco, oscuro. La portatrice di consigli mi avvolge in una consapevolezza nuova, finora solamente osservata tra gli astri: “L’adultère, c’est moi”.

domenica 4 settembre 2016

Los*

Posto qui sotto un altro monologo interiore / mini-racconto sul modello de 'Il fabbro', 'Alba', 'Nuvole' e 'Risveglio'. Qualsiasi tipo di feedback è più che apprezzato.

© Elena Pagnoni Photography


Osservare le persone ha sempre esercitato un certo fascino su di me. Guardarle camminare per la strada con quel passo affrettato di chi è in ritardo per l’imminente lezione di filologia germanica o di chi ha ricevuto una delusione troppo grande per rimanere sotto l’occhio pubblico ancora a lungo; guardarle interagire tra di loro, ridere degli errori altrui, saltellare allegramente in un pomeriggio domenicale o trascinarsi a casa dopo una notte brava in discoteca; guardarle pranzare sontuosamente attraverso il vetro di una brasserie, osservarle masticare carne con disinvoltura e con un grande senso di civiltà. L’umanità è lo spettacolo migliore a cui possiamo assistere. La lente pubblica non permette a nessuno di passare inosservato e io, in fondo, non sono tanto diverso. Li osservo nei loro gruppi selezionati come in quelli circostanziali, li guardo nella loro pacifica solitudine come nel loro goffo stare insieme.
È questo stare insieme, forse, ad avermi sempre creato problemi. Il perpetuo convivere con l’altro, la continua lotta di capirlo, lo stesso identico risultato ogni volta. Pensi di aver fatto breccia nel suo nucleo ma poi improvvisamente ti accorgi di esserti perso un satellite. Fai quindi un passo indietro, lo osservi, noti dei pezzi, delle parti mancanti, oscure, opache. Non riesci ad avere una visione d’insieme, pur sapendo che una singola parte non significa nulla da sola. Allora ricomponi quel puzzle con dei tuoi pezzi, meglio che puoi, riarrangiandoli in combinazioni sempre nuove. Ciò che manca lo completi, così, giusto per dare una sagoma meglio definita a quell’enigma. Comprendi le sue parti ma non concepisci nemmeno la sua interezza.
Impari ad osservare, a stare in disparte, a svincolarti dalle dinamiche sociali per avere una visione migliore, cerchi insomma di creare tra te ed esse una distanza tale da permettere il giudizio e la critica. Inizi a girarci intorno come ad una statua su un piedistallo sopraelevato in un museo, osservandola da diverse angolazioni ma pur sempre dalla tua modesta altezza. Pensi di comprenderla in toto, di averne studiati i minimi dettagli, ma dimentichi di non essere in grado di osservarla dall’alto. Non riesci a collegare i pezzi, sei incerto sull’aspetto della parte di quella statua che è rivolta verso l’alto. È in questa incompletezza di giudizio che procedi al completamento del cerchio, alla rimozione di quell’incertezza che è condizione necessaria del tuo osservare. Allo stesso modo in cui io osservo i passanti e immagino che siano in ritardo per una lezione di filologia germanica o leggo sul loro volto una delusione difficile da contenere, tutti noi completiamo le immagini degli altri a nostro piacimento, tra elementi reali e collegamenti immaginari. Creiamo dei personaggi nella nostra mente, diventiamo per un attimo drammaturghi e li mettiamo in scena. “Vediamo che succede se metto insieme un ragazzo ritardatario con uno dal cuore spezzato, chissà cosa succederebbe se il primo si rivelasse la causa scatenante del dolore del secondo, che in realtà lo starebbe quindi inseguendo per cercare vendetta.”
E allora ci raccontiamo delle storie su ciò che ci circonda, ce ne convinciamo, confondiamo mito e realtà, vissuto e raccontato, li fondiamo in un insieme organico, in diverse combinazioni, sempre più avvincenti, sempre più convincenti. Ecco qua la vita: un continuo tentativo di costruire impalcature per sorreggere dei frammenti di una realtà insondabile. Come degli archeologi che mettono insieme i pezzi di un tempio romano, aggiungendo qua e là delle parti in mattone, giusto per collocare tutto al giusto posto. E tuttavia, l’insieme è ancora frammentario, è lasciato in parte all’immaginazione dell’osservatore, senza che questo, quindi, possa recepire un messaggio univoco. E anche in questo sta la difficoltà infatti, comunicare all’altro, rendere un passivo ricevere una continua interazione. Perché anche lui, come te, faticherà, stenterà, magari in parte si rifiuterà. Come possono due esseri così incompleti interagire così perfettamente? Questa mancanza, questa incompletezza, questo essere in dubbio è in fondo il nostro destino, quello che ci condiziona nell’assoggettarsi a questa rete sociale. È parte della nostra libertà negata ai fini del contratto sociale ed è pertanto parte integrante della nostra condizione. Mancanza e destino così intrinsecamente legati, chi l’avrebbe mai detto?
Arriva un certo momento della vita in cui lo realizzi, lo noti intorno a te, inizi a raccontarti storie al riguardo e quindi adotti l’unico approccio che possa darti una forma di libertà: te ne vai. Vedi questi fili che prima erano invisibili, li tagli di netto, inizialmente è strano, fa male. Ti ritrovi su una fredda strada ad osservare i passanti. Inizialmente li sdegni, ti fai beffa del loro vacuo passare, sogghigni davanti ai loro fallimenti, alla loro casualità, al loro essere parte di un enorme e futile formicaio. Poi inizi a realizzare che quel dolore iniziale non era solamente psicologico, quei fili erano in realtà dei tuoi nervi, sottili, che si diramavano verso gli altri, verso il mondo, permettendoti di percepire la loro umanità e incompletezza, consentendoti di accedere ad un piano diverso in cui le incertezze magicamente si dissipano. Ti ritrovi svincolato dalla gente, perdi l’esperienza dello stare al mondo, dimentichi come ci si senta, come quando un anziano cammina per il parco e vede dei bambini andare su quelle giostre circolari che girano; li vede girare e girare, ridere, impanicarsi per la velocità eccessiva, quindi rallentare. Così io continuo a camminare, senza provare più molto. Questo è il cammino intrapreso, questa la mia scelta, questa la mia attuale condizione. Mancanza, destino, via.
La mia vita è su una strada al di fuori della società, al di fuori della norma. Sono l’autoesiliato che vive nell’osservare la propria patria. Questo imperfetto osservare mi rende uno spettatore che riesce a vedere solo alcune scene e che quindi si eleva a drammaturgo per dare loro una forma più consona, più regolare, più afferrabile col pensiero. Ma in fondo, anche questa è una delle mie storie.



*Los in tedesco è un suffisso che indica mancanza, in parole come “wortlos” (Wort = parola, + -los = mancanza; “senza parole”) o “namenlos” (Name = nome, + (-n) + -los = mancanza; “senza nome, anonimo”). Come sostantivo, das Los, significa destino, ciò che ci tocca in sorte. Los è anche un prefisso per verbi separabili, nel quale contesto significa generalmente “via”; indica un partire, un allontanarsi, come nel caso del verbo “losgehen” (los- = prefisso, + gehen = andare; “andare via, andarsene”). Interessante, poi, che questo stesso verbo, andarsene, in tedesco voglia anche dire cominciare. Jetzt geht’s los, ora si comincia.

mercoledì 31 agosto 2016

Risveglio

Dopo un po' di tempo, son tornato con un racconto breve sul modello de 'Il fabbro', 'Alba' e 'Nuvole' (e, almeno in parte, 'Σίσυφος (Sísyphos)'). Come sempre, commenti e feedback di qualsiasi tipo sono più che apprezzati.





Risvegliarsi da sogni imbarazzanti, ritrovarsi in un letto, da soli, senza via di fuga. Sentirsi gli occhi gonfi di lacrime non versate. Fare colazione con la nausea accanto a te che ti accarezza, che ti dice che hai proprio una faccia da schifo stamattina. Continua a farti discorsi, a chiederti che fine abbia fatto il tuo sonno di bellezza, dove sia finito il tuo bel viso truccato e curato della serata precedente, dove tu abbia lasciato la voglia di vivere. Non senza ironia. “Ti sei tolta il trucco per portare questa miserabile maschera di sofferenza? Suvvia, sei giovane, la vita è bella alla tua età”. Ora inizia a sembrare tua madre, la tua vicina di casa, una amica di tua zia. Ti propina luoghi comuni sulla felicità. “Tu non vedi ciò che vedo io” le rispondo, pentendomene immediatamente, cogliendo una sfacciataggine bambinesca che non mi rappresenta. “Sei solo una ragazzina viziata” riprende lei, “Non apprezzi un briciolo della fortuna che hai! Ci sono ragazze che soffrono per il loro fisico, per il loro aspetto, per come le vedono gli altri, e tu guardati! Quelle gambe, quel viso perfettamente calibrato e modellato alla perfezione. Non hai proprio nulla di cui lamentarti”. Penso a quell’uccellino nella gabbia di cui parlava Van Gogh in una lettera al fratello, a quanto le nostre vite viste da fuori possano sembrare tutto tranne quello che sono realmente. Da fuori tutto ciò che si vede è una facciata vuota, su cui gli altri proiettano una felicità che in realtà non ci appartiene. Penso al paragone con il camino: dentro, un fuoco scoppiettante, fuori, del fumo che esce dal camino. Da fuori, un uccellino in gabbia con tutto ciò che potrebbe desiderare nella sua limitata visione della vita: cibo, ammirazione, magari qualche carezza, tanto affetto. Da dentro, un uccellino in gabbia a cui tocca costantemente vedere la grande migrazione dei suoi simili passare davanti alla finestra, istinti che è costretto a reprimere, ignorando la primavera che intona un canto altisonante.
In questi giorni risvegliarsi è come finire la morfina in corpo. Il cervello si attiva, gli occhi si aprono, il dolore torna a fluire. Come se fosse quest’ultimo a dettare quando sono sveglia e quando invece dormo, cullata da incubi che sogghignano incessantemente. Perlomeno quando sogno sono in un altro mondo, qualcosa che mi appartiene, nel bene e nel male. Quando mi ritrovo, come ogni giorno, tra queste candide lenzuola profumate, subentra una sensazione di essere nel posto sbagliato, il disagio e lo sconforto irrompono nella serenità che solo la notte sa portarmi. Scosto le coperte, mi alzo senza slancio, mi ritrovo seduta su un lato del letto, quello di fronte allo specchio. Di nuovo quella faccia, quella maschera di sofferenza che indosso costantemente in periodi come questo. Di nuovo quel corpo da pubblicità su riviste giovanili, di nuovo la nausea di essere me stessa e non quell’immagine di me che gli altri si divertono tanto a vendere. Un singhiozzo rompe il mio viso equilibrato come a ribadire l’importanza capitale che questa malattia dello spirito ha ormai assunto nella mia vita.
Mi sento addosso una stanchezza esistenziale impareggiata da ore passate a camminare su una passerella con addosso i vestiti più assurdi, con le espressioni più seducenti e felici che il mio viso mai conoscerà, ore passate ad esibire non soltanto un bel corpo, ma anche e soprattutto una presunta felicità sociale e lavorativa che non mi appartiene in alcun modo. Giorno dopo giorno mi ritiro in questa mia tana per abbeverare i miei demoni con il mio sangue. Questi si contorcono ed emettono grugniti mentre il mio sangue scorre inesorabilmente dalle mie vene, si avvicinano senza curarsi della mia incolumità, si nutrono di me e dei miei venticinque anni. Calde lacrime si annidano negli angoli dei miei occhi, mi impediscono di vedere ciò che succede e, almeno in questo, trovo conforto.
Come sono arrivata fin qui? Chi mi ha trascinato in questa arena di sconforti e fatiche? Dove trovo l’uscita verso un mondo confortante? Esiste un modo per deviare da questa rotta che mi porta in lande desolate, verso un’arsura che le mie forze non riescono in alcun modo a temperare? Come sacrificai la mia vita sull’altare dell’equilibrio e dell’armonia estetici? Come porre rimedio ad un azzardo? Domande che mi assillano, che pongono la mia mente sotto assedio ormai da anni. I viveri iniziano a scarseggiare e questo assedio non pare voler terminare.
Come ogni mattina, mi preparo. Ricopro il mio corpo di vestiti costosi, di profumi intensi, di accessori sfavillanti per celare un po’ più in profondità questa miseria esistenziale. Esco di casa e noto l’inutilità delle nostre apparenze, la necessità di esibire una serenità che spesso non ci appartiene, il bisogno viscerale di avere rapporti umani, di scambiare parole, per quanto vacue, con individui di cui temiamo il giudizio, senza diritto di deroga. Vedo i binari che mi conducono verso le solite consuetudini, le stesse marmoree leggi che giorno dopo giorno mi fanno affondare nella disperazione. Deragliare dovrebbe essere un diritto di tutti. Scostarsi per un attimo da questo cammino di strazi per poter vedere altro, per cercare qualcosa, ma senza mai trovarla. Per essere semplicemente cercatori, per evitare questo fardello sociale ed esistenziale, per costruirsi un proprio spazio vitale senza necessariamente intaccare quello degli altri. Tagliare i fili che ci legano agli altri per poter operare le proprie scelte senza dover necessariamente agire in questa trappola della normalità e delle apparenze.
“Alice!” sento chiamare dietro di me. Mi volto. Una mia collega mi abbraccia, capelli perfetti, sorriso inattaccabile, voce squillante. Dentro di me la ringrazio, mi stavo dimenticando della mia apparenza. Altro giorno, stesso gramo ruolo su questo palcoscenico. Passati gli inconvenienti, alzo gli occhi al cielo: uno stormo di uccelli migratori taglia longitudinalmente questo azzurro cristallino. Emetto un sospiro e mi focalizzo nuovamente sulla mia direzione: si torna in scena.

sabato 2 aprile 2016

Otii Encomium

Albrecht Dürer, 'Melencolia I' (1514)


























Dopo aver passato un periodo piuttosto intenso in cui avevo sia un lavoro che un saggio da consegnare per l’università, ho deciso di scrivere di un tema a me caro: l’ozio. Per quanto possa sembrare banale, forse anche ridicolo, ho avuto modo di riflettere negli ultimi mesi su quanto sia fondamentale avere delle ore di ozio nella vita quotidiana.

Il termine in sé deriva dal latino otium che nasceva in contrapposizione al negotium (spesso al plurale negotia), ossia quell’insieme di attività che derivavano dalla partecipazione alla vita pubblica e/o socio-economica. L’ozio, al contrario, era il tempo libero, se vogliamo semplificare, ossia tutto quel tempo che l’individuo dedicava a qualsivoglia attività egli desiderasse svolgere.

Per approfondire questo aspetto, credo sia essenziale fare una premessa. Quando facciamo parte di una società civile, indossiamo una maschera giuridica che sostanzialmente limita la nostra persona ad una serie di diritti, di doveri, di responsabilità e di mansioni. Non è un caso che la parola “persona” in latino significasse originariamente “maschera”: il termine in sé infatti deriva dal verbo “per-sonare”, “suonare attraverso”, in riferimento alla fessura attraverso cui la voce deve passare quando un individuo, e nello specifico dell’etimo un attore teatrale, indossa una maschera. Pertanto, durante i nostri negotia, noi indossiamo una maschera a seconda di quale mansione svolgiamo all’interno della società di cui facciamo parte.

Il termine che si contrappone a “persona” è quello di individuo. Anche questo deriva dal latino, dove “in-dividuus” indica tutto ciò che è indivisibile e di conseguenza unico, speciale. Durante il nostro ozio siamo pertanto individui, unici e irripetibili, ognuno coi propri interessi e le proprie peculiarità. Il tempo libero rappresenta quindi quel lasso di tempo in cui l’individuo si toglie la propria maschera di persona per poter esplorare e migliorare le proprie capacità.

In una società capitalistica come quella in cui viviamo ogni giorno, veniamo costantemente spronati ad utilizzare il nostro tempo in modo produttivo. Ritengo, però, che non sempre si faccia attenzione al modo in cui viene utilizzato questo aggettivo. Nell’interesse del gretto capitale, infatti, ognuno dovrebbe portare la propria maschera di persona molto più a lungo di quanto necessario. Figure come quelle dell’imprenditore e del libero professionista, rese possibili tra le altre cose dal sistema socio-economico odierno, consentono e, di fatto, spingono gli individui nascosti dietro alle loro maschere a trascurare tutto ciò che invece a mio avviso andrebbe incoraggiato. Tutto questo, ovviamente, nel quadro di una logica prettamente economica dove più lavoro, più guadagno, più posso permettermi oggetti che mi garantiscano un certo status sociale.

Il mio interesse per questa tematica, già palesato, tra le altre cose, nel monologo intitolato ‘Il fabbro’, è cresciuto negli ultimi mesi come risultato della sopraccitata strana congiuntura storica tra studio e lavoro, congiuntura a me sconosciuta fino a poche settimane fa. Lavorare, anche solo part-time, per poi tornare a casa e dedicarsi ad attività più intellettuali come la stesura di un saggio può essere, non lo nego, molto soddisfacente, purché le due non vadano ad inficiarsi reciprocamente – e, naturalmente, purché le due siano fatte con un certo grado di soddisfazione che esuli dal semplice interesse materiale per il denaro. Fintanto che scrivo un saggio su un romanzo fenomenale di una scrittrice geniale posso ancora ricavarne qualcosa che vada oltre la concretezza della consegna dello stesso ai fini dei crediti universitari.

Tuttavia, osservando le persone intorno a me, noto come molti individui si debbano privare del proprio otium per inseguire degli obiettivi non sempre piacevoli e non sempre così dettati da un interesse genuino per la materia o la sostanza di cui si parla. Certo, nulla vieta loro, in qualità di persone, di dedicarsi ad attività noiose o poco gradite, anzi, è necessario occuparsi anche di queste di tanto in tanto – il lavoro dei sogni probabilmente nasconde delle insidie non sempre visibili di primo acchito. Quando il negotium però viene ad appropriarsi dell’otium, io credo sia necessario tornare alla radice del problema. I ritmi frenetici possono anche esserci, oggi più che mai, ma credo sia imprescindibile tenere sempre a mente che non siamo solo delle “personae”, ma anche e soprattutto degli “individui”.

L’ozio, checché se ne dica in questa società dominata dai negotia, merita di esistere in quanto dà forma e voce a tutto ciò che ci è più caro, prima fra tutti la nostra identità – parola che etimologicamente, ci tengo a ricordarlo, implica una molteplicità di cose “surrogabili l’una all’altra, senza che possa indursene mutamento di sorta” (etimo.it). Non siamo, quindi, ciò che produciamo, contrariamente a ciò che ci viene propinato quotidianamente; la nostra identità trascende le nostre maschere e funge da foce a estuario dove diverse acque si incontrano e si mescolano. Senza questa molteplicità, la nostra capacità di individui viene meno.

domenica 14 febbraio 2016

Σίσυφος (Sísyphos)

Ho deciso di dedicarmi ad uno dei miti che mi sono più cari, quello di Sisifo, condannato da Zeus a rotolare eternamente su per un monte un masso senza mai riuscirci e dovendo quindi ogni volta ritentare pur conoscendo il proprio destino. Ecco quindi un monologo sulla scia de 'Il fabbro', 'Alba', e 'Nuvole'.

Franz von Stuck, 'Sisifo' (1920)

Per tutta l’eternità spingo questo greve masso su per una salita che non si mitigherà mai. Una salita che mi guarderà indispettita ad ogni mio tentativo, che si farà beffa di me e del mio eterno movimento costante quanto futile. I muscoli si sforzano, si coordinano, cooperano affinché io possa nuovamente fallire. Ad ogni tentativo si fanno più forti, le dita dei piedi si stortano sempre più, si adattano in continuazione a ciò che viene loro richiesto, si piegano all’arbitrarietà di circostanze assurde. Le mie mani si fanno dure, callose, robuste; si appropriano della forma di questo masso, lo sfiorano, rivolgono la loro rinnovata energia verso un oggetto che è ormai diventato parte di loro. Lontani sono i giorni in cui esse, pavide, si avvicinavano a questo freddo pezzo di pietra per la prima volta. Lontana è la paura di non conoscerlo, di esplorare l’ignoto, l’alieno; altrettanto lontano è il timore di non potersi confrontare con esso. La vicinanza non mi atterrisce. Ho levigato questo masso ogni minuto della mia vita, l’ho fatto mio, mi sono appropriato delle sue fattezze, le ho in parte adattate a me. Questo masso è lo specchio del mio destino assurdo, dell’eterno ritorno di quelle stesse azioni futili, di quegli sforzi sovrumani, di quegli spazi soffocanti. Traggo calore da questo pezzo di pietra, mi impossesso dell’energia che posso derivarne. La mia esistenza è diventata una simbiosi con l’altro. Io lo levigo, lo rendo umano. Esso mi prepara ad un nuovo fallimento, ad un nuovo ripetersi.
In fondo, questo è il mio posto. Nella terra ai miei piedi vedo la concretizzazione delle mie erculee fatiche, conseguenze e al contempo cause della mia fallimentare impresa. Impronte diverse ma in fondo fin troppo simili, dominate da un caos che sa riproporsi anche nello scontare eternamente la stessa pena. Il sudore gronda dalla mia fronte e bagna il mio corpo come sangue che fuoriesce lento e costante da una ferita di color carminio. Sangue che abbandona il mio corpo a contatto con l’aspra concretezza di questa pietra e questa terra, che contribuisce a lubrificare questo eterno dolore, questa inscontabile condanna. Sì, questo è il mio posto, davanti a questa fredda terra, dietro a questo enorme masso che si fa beffa della mia forza fin troppo umana. Io sono la lotta stessa, la lotta contro un destino più grande di me, un destino che grava sulle mie spalle senza che io abbia la possibilità di scrollarmelo di dosso. Soffro, mi ribello, spingo con più forza, fallisco, soffro nuovamente. Eppure, potrei giurare di essere stato felice nel mio atto di ribellione. A questo mi aggrappo, questo mi incoraggia a tentare nuovamente, con rinnovato vigore, un’impresa intrinsecamente fallimentare. Per un attimo, una brezza piacevole rinfresca la mia fronte sudata e i miei muscoli tesi. Ma non c’è tempo per questo, no, bisogna continuare a spingere.


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Stavolta, ho pensato di lasciare spazio a qualche considerazione personale e letteraria. Infatti, la mia passione per Sisifo e il suo destino assurdo è nata principalmente scoprendo e, successivamente, leggendo un saggio del grande scrittore francese Albert Camus. Egli, infatti, spiega ne Il mito di Sisifo come la condanna di Sisifo sia intrinsecamente assurda: si ritrova infatti in un mondo senza moto reale, che continua a riproporsi nello stesso modo all’osservatore e soggetto che ne fa parte, ossia Sisifo stesso. Questo mondo assurdo è esattamente lo stesso in cui viviamo noi, secondo la Weltanschauung esistenzialista, un mondo scevro di qualsivoglia significato, privo di una vera e propria logica. Non è un caso che l’esistenzialismo sia nato come risposta al secondo dopoguerra e alla devastazione materiale e spirituale che ha portato con sé.

Tuttavia, l’esistenzialismo è lontano dall’essere una filosofia della crisi che si limita a prendere atto di essa senza proporre un messaggio positivo. Scrittori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Simone de Beauvoir, infatti, sono famosi per il loro impegno sociale e civile. Questo è sintomo del fatto che questa triade non circoscriva la propria opera ad una élite di intellettuali, bensì cerchi di rivolgersi ad un vasto pubblico, almeno attraverso la propria narrativa. L’obiettivo, chiaramente, è quello di divulgare, di arrivare alle persone, alla società – un obiettivo che condivido anch’io che scrivo questo blog, seppur in modo molto più modesto.

Alla luce di questo attivisimo sociale, è possibile quindi passare alla seconda parte dell’analisi di Camus. Egli, di fronte ad un mito tanto assurdo e apparentemente crudele, elabora una risposta positiva, suggerendo che Sisifo, in realtà, sia felice. “La lotta stessa verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”, dice Camus, estendendo quindi l’oscuro mondo del mito greco oltre i confini dell’assurdità e della crudeltà dell’esistenza fino a raggiungere il paradiso della felicità. Questo si concretizza quando un uomo, di fronte ad un destino più grande di lui, si ribella, lotta, si indigna, non accetta la propria sorte: in quel momento, in quell’atto, egli si erige a capitano della propria nave, si mette al timone e prende il controllo di un’esistenza priva di logica. E questa logica, non c’è bisogno di dirlo, viene a coincidere con quella che l’uomo decide di attribuirle: l’esistenza è assurda solo nella misura in cui l’uomo non le ascrive un proprio senso, un proprio significato; e nel fare ciò, egli si ribella ad un destino crudele e ad un mondo indifferente, assumendo pertanto una dimensione individuale improntata alla lotta.

Per scoprire qualcosa in più sull'esistenzialismo, invito alla lettura di questo vecchio post su questo blog.

mercoledì 3 giugno 2015

Nuvole


Pubblico qui il terzo monologo, sulla scia de Il fabbro e Alba, nella speranza che possa risultare interessante a qualcuno. Come sempre rimango aperto a critiche e pareri diversi dal mio.







Disteso in un prato osservo il percorso delle nuvole, le loro traiettorie inenarrabili, le guardo fare il loro inarrestabile corso. Il vento le sospinge un po’ più in là, gradualmente, pian piano, sempre più lontane. Le vedo trasformarsi lentamente, modellate da una forza che non sanno descrivere. Vengono separate, lacerate, levigate, gonfiate, smontate. Provo a contarle, una, due, tre, quattro... Sento di dovermi fermare qui. Sono molte di più di quante la mente non possa abbracciarne. Si susseguono senza tregua, occupano spazi indescrivibili, insondabili. Sembrano spumose, rigonfie, ma ho l’impressione che siano impalpabili al tatto. Che stranezza. Penso di conoscerle, credo di essermi impossessato del loro segreto, della loro natura, delle loro qualità intrinseche, ma non ho mai avuto modo di accarezzarle, di toccarle, di domarle. Non ne ho mai sentito l’odore, mai ne sentirò il sapore. Non so se si possano respirare, digerire, calpestare. Eppure le posso osservare e tramite questo unico senso credo di averle comprese, di averle rese parte della mia conoscenza del mondo. Sento di poterle adorare, di poterle amare come un’amante la notte del giovedì quando tua moglie è fuori casa: segretamente, intensamente, immersi in un mondo dove vigono altre regole, dove esistono solo due entità, tu e lei. La vergogna è qualcosa che nasce solo il giorno dopo, al risveglio, pian piano si inserisce nella tua giornata, inizia a punzecchiarti mentre giaci nudo nel letto, prima le dita dei piedi, poi le cosce, l’addome, il petto, il viso; a colazione è seduta con te al tavolo, senti il suo sguardo pesare su di te, ma non trovi il coraggio di ricambiare quello sguardo intenso, quell’implicito tono declamatorio che si rifà a grandi ideali di perfezione, di amore vero, di sentimenti genuini che tu non hai mai saputo cogliere, o che forse la vita non ti ha mai regalato; a pranzo, lei torna, la vergogna si stampa sulle sue labbra quando la baci e la accogli in casa prima di tornare a lavoro; come un alone, ti accompagna fino a cena, un alone scuro, violaceo, funereo; la sera rincasi, obnubilato da una presenza che non è di questo mondo, ti cambi, ti fai una doccia, sperando di levartela di dosso; la vedi scendere giù per lo scarico, pensi di essertene liberato, ma era solo sporcizia.
Il sole torna a splendere, si riflette sul mio viso confuso, contratto in mille pensieri infelici. Ricordi di una notte altrettanto miserabile. La passione di qualche manciata di minuti, la voluttà ti attanaglia, e tu la espelli in un pezzo di lattice. Scatenarsi, ansimare, riposare esausti l’uno accanto all’altra. Imprimere il proprio sudore, il proprio odore nelle lenzuola: questo sarà ciò che ne rimarrà l’indomani, una presenza nebulosa, vaga, che porta alla mente ricordi confusi, ingarbugliati, impossibili da rievocare nel dettaglio. Ricordi i suoi movimenti sopra di te, la ciocca di capelli che le hai spostato dal viso, le sue mani sul tuo petto, poco altro. Ad accompagnarti fuori dalla porta è la vergogna del tradimento, della tua gretta esistenza spoglia di vesti illibate, candide, profumate. Tutto ciò che rimane è l’odore di un processo innaturale, artificioso, forzato, privo di senso. Ti rifugi nel tutto, nelle nuvole che accarezzano dolcemente il cielo mentre si dirigono verso mete che non potrai mai ammirare. Loro fugaci, leggere, eleganti; tu ancorato a questa esistenza terrena, a questo suolo bagnato di lacrime, macchiato di sangue, calpestato da milioni di fantasmi che, come te, girovagano immersi nei loro eterni, insensati scopi.
E se queste nuvole fossero destinate a rimanere? Se il loro moto fosse apparente, se il sole non riuscisse mai più a penetrare questa coltre grigia e melancolica? O se ci riuscisse solamente sporadicamente, come se un qualcuno, un qualcosa di più grande volesse graziarmi, così, per tenermi vivo e vegeto? Se questo cielo nuvoloso, grigio, fosse la regola e non l’eccezione? Se i pensieri e i ricordi fossero destinati a bussare alla porta costantemente, vigili, imperituri, attendendo la mia più piccola debolezza? Se io fossi in un rifugio in montagna da solo, attendendo qualcuno, ma alla porta si presentasse solo un lupo solitario? Se questo iniziasse a graffiare la porta, a ululare, a digrignare i denti quando osassi scaricare il mio sguardo spaventato su di lui? Se quel qualcuno non arrivasse mai e io fossi destinato a rimanere bloccato in quella casa, isolato dal mondo da una bestia feroce pronta a divorarmi non appena io decidessi di cedere al suo canto intossicante? Ci sarebbe indubbiamente un certo piacere in tutto ciò. Quella sorta di voluttà provocata dal bel canto delle sirene, che ti ammaliano e ti invitano all’autodistruzione. Forse è questo l’unico piacere che saprei concedermi, quello del dolore, dell’atrocità, dell’annientamento. Niente amore, niente sesso, nessun legame che sappia dare una svolta alla mia esistenza. Nessun porto sicuro. Sono al contempo la tempesta e il capitano della nave destinata a smantellarsi sugli scogli. Che le sirene cantino o meno poco importa. Non ho una rotta, nessuno strumento di navigazione mi sa davvero aiutare a trovare la strada, nessun tipo di presenza umana o divina mi assiste. Ci siamo solo io e questa tempesta che sono i miei pensieri, che si susseguono l’un l’altro senza posa, proprio come queste candide nuvole che soffocano il sole e la sua luce. Scorrono una dopo l’altra, senza sosta, tanto leggiadre quanto letali. Si tratta solo di una parvenza di movimento, di fatto non fanno altro che perpetuare il soffocamento del sole. Qualche volta ricompare, prende fiato esausto, quasi esanime, per poi tornare nell’ombra a cui appartiene.
Io sono il sole destinato a non spegnersi mai, soffocato dall’eterno susseguirsi di nuvole dalla sostanza impalpabile. Questa è la mia condizione, questa la mia condanna.

domenica 31 maggio 2015

Alba


Seguendo le orme di un mio pezzo precedente intitolato Il fabbro, ho deciso di cimentarmi nella scrittura di monologhi interiori brevi e sostanzialmente monotematici per affrontare alcuni temi che mi stanno cari. Questo è il secondo pezzo che risulta da questo tentativo. Come sempre rimango aperto a pareri diversi dal mio, sentitevi liberi di commentare pubblicamente o in privato.



La pioggia batte contro al vetro di questo luogo asettico e immacolato, eppure così macchiato di piccole tragedie quotidiane da emanare un odore nauseabondo di lacrime e dolore. Osservo il mondo fuori, attraverso la finestra, proprio come la protagonista di una tragedia domestica che sogni di essere altrove, immersa nell’esoticità di posti che mai furono e mai saranno. Intravedo le prime luci del giorno avvicinarsi, all’orizzonte il sole ancora si fa attendere, ma la natura ha già organizzato un comitato d’accoglienza degno di nota. Il canto del mattino non tarda ad inserirsi lentamente nel cambiamento che la natura subisce da notte a giorno, da oscurità a luce, da silenzio a rumore. Le mie dita, intrecciate in un fazzoletto, mostrano i primi segni di una stanchezza che vorrei non mi appartenesse. Tremano, fanno dei periodici scatti repentini che mi riportano costantemente alle lacrime e alla sofferenza di questa realtà. Mi volto verso il letto dove giace l’uomo che amai per tutta la vita. Lo vedo inerte, impassibile; lo vedo vegetare in uno stato che ancora non riesco ad accettare. Deglutisco, abbasso lo sguardo. Stringo il fazzoletto, ne noto nuovamente il tessuto pregiato, quella stessa seta che negli anni ha accolto la mia sofferenza, che mi ha cullata e mi ha fatta scivolare fuori dai momenti più bui. Qui ritrovo le mie lacrime, le parti più sofferenti del mio corpo, il sudore di un parto, il sangue che ho strofinato via dalle ferite dell’infanzia di nostro figlio. Ripercorro i passi che mi hanno portata in questa stanza d’ospedale e mi chiedo cosa la vita volesse davvero da me. Mi chiedo se ogni piccolo movimento, ogni parte, ogni minimo gesto fosse necessario ed inevitabile. Arrancare, spostarsi, ritornare sui propri passi, camminare secondo traiettorie prestabilite, descrivere un cerchio con il proprio andazzo claudicante. Che razza di percorso è la vita. Scuoto la testa, le mie labbra si raggrinziscono in un sorriso sofferente, sento il dolore affluire agli angoli dei miei occhi. Osservo le mie mani consunte, accarezzo il mio fazzoletto color panna, poi ritrovo la forza per guardare nuovamente quel corpo freddo come roccia che langue infermo in uno scomodo letto d’ospedale. Tutto questo volge al termine. Non si tratta più di osservare l’uomo che ho amato per un’umana eternità, no, questo ormai si riduce ad essere un macabro spettacolo della natura. E io sono costretta ad assistervi come spettatrice impassibile, non batto ciglio di fronte a tanta crudeltà, mi rifugio anzi nelle sofferenze del mio passato, cerco di visualizzare un futuro ottenebrato da questo evento assassino. Rabbia, sofferenza, incapacità di affrontare questo strazio. È questa la mia tragedia? Quella che porterò a malincuore per il resto della mia esistenza, quella grande croce rossa, quel bracciale funereo che cingerà il mio braccio per sempre? È questo l’inevitabile destino verso cui sto correndo?
Mi lascio distrarre dal più piccolo rumore, la mia inesausta speranza mi tiene attenta, vigile, in attesa del più piccolo segnale. A volte è un respiro più affannato, altre volte si tratta di un movimento quasi impercettibile delle dita. In ogni caso, nulla si muove, tutto è fuori dal tempo, stanotte. Tutto tranne questa crudele natura che ci spia dalla finestra, che sgomita ricordandoci che c’è sempre qualcosa di più grande che si muove anche se noi siamo ancorati in un deserto atemporale. Quanta ironia c’è nel mondo, nell’inesorabile correre del tempo, nell’eterno ripetersi delle stagioni, nella nostra perpetua lotta per trascinare dietro di noi cose che non ci possono più appartenere. Ci opponiamo alla natura, cerchiamo di divincolarcene, di strapparle qualcosa che ha saputo smuovere in noi un sentimento, un affetto, una passione. In un primo momento ci riusciamo, i nostri avidi artigli infossati nella carne così fresca, sanguinea, del colore del migliore dei tramonti. Presto o tardi, ci accorgeremo che siamo aggrappati ad un pezzo di carne imputridita, dall’odore nauseabondo, troveremo dei vermi ad ogni morso, introdurremo del veleno nel nostro organismo, lo masticheremo in parte soddisfatti, in parte avviliti, lo assimileremo, impareremo a digerirlo, a volte persino ad apprezzarlo. E poi sarà troppo tardi, ci rassegneremo. Guarderemo il nostro riflesso nello specchio abbattuti, vedremo un viso emaciato, logoro, incapace di subire il lento protrarsi della nostra sofferenza. Vorremo piangere, esternare il nostro dolore, ciò che ci lacera l’anima, ma ci accorgeremo, finalmente, che ad ogni alba ci siamo riscoperti non più forti, ma più adatti al nostro ruolo di maschere di sofferenza; ogni giorno, abbiamo migliorato la nostra capacità, abbiamo levigato i nostri spigoli per riuscire a stare in un cerchio perfetto, per riuscire a fare ciò che abbiamo trascinato con noi negli ultimi anni. Cosa siamo diventati? Intossicati dalle nostre faccende quotidiane, dimentichi del mondo, dello schema più grande nel quale siamo inseriti, puramente interessati al nostro gretto egoismo, alle nostre cose, ai nostri affetti, alle estensioni della nostra personalità, abbiamo proseguito nella nostra futile lotta contro un destino più grande di noi. Ci siamo creduti superiori al mondo, alla morte, persino alla vita. Abbiamo ricreato vita, l’abbiamo introdotta nella nostra misera esistenza quotidiana, ci siamo ostinati a portarci appresso tutto ciò che ci era caro. Non abbiamo mai imparato a dire addio, non ci siamo mai abituati al commiato. Ma il conto arriva sempre. Io sono qua a pagarlo, davanti alla beffa che il mondo si fa di me e della mia minuscola presenza, della mia lacrimosa tragedia da quattro soldi. In un attimo, la macchina si spegne, mio marito con lei. L’ospedale si ottenebra davanti ad un’alba che non è mai stata più lucente, un sole scintillante compare all’orizzonte, forte, ruggente, impavido. Nell’umanità impazza il caos.
Non trovo nemmeno la forza di alzarmi da questa sedia. Le lacrime si annidano agli angoli dei miei occhi lucidi, la mia faccia si comprime in una smorfia sofferente, ma pacata, quasi serena. Sento la mia nuora chiamarmi, da fuori: “Alba!”.
Già, proprio così. Quanta ironia.
Quanta ironia.