domenica 31 maggio 2015

Alba


Seguendo le orme di un mio pezzo precedente intitolato Il fabbro, ho deciso di cimentarmi nella scrittura di monologhi interiori brevi e sostanzialmente monotematici per affrontare alcuni temi che mi stanno cari. Questo è il secondo pezzo che risulta da questo tentativo. Come sempre rimango aperto a pareri diversi dal mio, sentitevi liberi di commentare pubblicamente o in privato.



La pioggia batte contro al vetro di questo luogo asettico e immacolato, eppure così macchiato di piccole tragedie quotidiane da emanare un odore nauseabondo di lacrime e dolore. Osservo il mondo fuori, attraverso la finestra, proprio come la protagonista di una tragedia domestica che sogni di essere altrove, immersa nell’esoticità di posti che mai furono e mai saranno. Intravedo le prime luci del giorno avvicinarsi, all’orizzonte il sole ancora si fa attendere, ma la natura ha già organizzato un comitato d’accoglienza degno di nota. Il canto del mattino non tarda ad inserirsi lentamente nel cambiamento che la natura subisce da notte a giorno, da oscurità a luce, da silenzio a rumore. Le mie dita, intrecciate in un fazzoletto, mostrano i primi segni di una stanchezza che vorrei non mi appartenesse. Tremano, fanno dei periodici scatti repentini che mi riportano costantemente alle lacrime e alla sofferenza di questa realtà. Mi volto verso il letto dove giace l’uomo che amai per tutta la vita. Lo vedo inerte, impassibile; lo vedo vegetare in uno stato che ancora non riesco ad accettare. Deglutisco, abbasso lo sguardo. Stringo il fazzoletto, ne noto nuovamente il tessuto pregiato, quella stessa seta che negli anni ha accolto la mia sofferenza, che mi ha cullata e mi ha fatta scivolare fuori dai momenti più bui. Qui ritrovo le mie lacrime, le parti più sofferenti del mio corpo, il sudore di un parto, il sangue che ho strofinato via dalle ferite dell’infanzia di nostro figlio. Ripercorro i passi che mi hanno portata in questa stanza d’ospedale e mi chiedo cosa la vita volesse davvero da me. Mi chiedo se ogni piccolo movimento, ogni parte, ogni minimo gesto fosse necessario ed inevitabile. Arrancare, spostarsi, ritornare sui propri passi, camminare secondo traiettorie prestabilite, descrivere un cerchio con il proprio andazzo claudicante. Che razza di percorso è la vita. Scuoto la testa, le mie labbra si raggrinziscono in un sorriso sofferente, sento il dolore affluire agli angoli dei miei occhi. Osservo le mie mani consunte, accarezzo il mio fazzoletto color panna, poi ritrovo la forza per guardare nuovamente quel corpo freddo come roccia che langue infermo in uno scomodo letto d’ospedale. Tutto questo volge al termine. Non si tratta più di osservare l’uomo che ho amato per un’umana eternità, no, questo ormai si riduce ad essere un macabro spettacolo della natura. E io sono costretta ad assistervi come spettatrice impassibile, non batto ciglio di fronte a tanta crudeltà, mi rifugio anzi nelle sofferenze del mio passato, cerco di visualizzare un futuro ottenebrato da questo evento assassino. Rabbia, sofferenza, incapacità di affrontare questo strazio. È questa la mia tragedia? Quella che porterò a malincuore per il resto della mia esistenza, quella grande croce rossa, quel bracciale funereo che cingerà il mio braccio per sempre? È questo l’inevitabile destino verso cui sto correndo?
Mi lascio distrarre dal più piccolo rumore, la mia inesausta speranza mi tiene attenta, vigile, in attesa del più piccolo segnale. A volte è un respiro più affannato, altre volte si tratta di un movimento quasi impercettibile delle dita. In ogni caso, nulla si muove, tutto è fuori dal tempo, stanotte. Tutto tranne questa crudele natura che ci spia dalla finestra, che sgomita ricordandoci che c’è sempre qualcosa di più grande che si muove anche se noi siamo ancorati in un deserto atemporale. Quanta ironia c’è nel mondo, nell’inesorabile correre del tempo, nell’eterno ripetersi delle stagioni, nella nostra perpetua lotta per trascinare dietro di noi cose che non ci possono più appartenere. Ci opponiamo alla natura, cerchiamo di divincolarcene, di strapparle qualcosa che ha saputo smuovere in noi un sentimento, un affetto, una passione. In un primo momento ci riusciamo, i nostri avidi artigli infossati nella carne così fresca, sanguinea, del colore del migliore dei tramonti. Presto o tardi, ci accorgeremo che siamo aggrappati ad un pezzo di carne imputridita, dall’odore nauseabondo, troveremo dei vermi ad ogni morso, introdurremo del veleno nel nostro organismo, lo masticheremo in parte soddisfatti, in parte avviliti, lo assimileremo, impareremo a digerirlo, a volte persino ad apprezzarlo. E poi sarà troppo tardi, ci rassegneremo. Guarderemo il nostro riflesso nello specchio abbattuti, vedremo un viso emaciato, logoro, incapace di subire il lento protrarsi della nostra sofferenza. Vorremo piangere, esternare il nostro dolore, ciò che ci lacera l’anima, ma ci accorgeremo, finalmente, che ad ogni alba ci siamo riscoperti non più forti, ma più adatti al nostro ruolo di maschere di sofferenza; ogni giorno, abbiamo migliorato la nostra capacità, abbiamo levigato i nostri spigoli per riuscire a stare in un cerchio perfetto, per riuscire a fare ciò che abbiamo trascinato con noi negli ultimi anni. Cosa siamo diventati? Intossicati dalle nostre faccende quotidiane, dimentichi del mondo, dello schema più grande nel quale siamo inseriti, puramente interessati al nostro gretto egoismo, alle nostre cose, ai nostri affetti, alle estensioni della nostra personalità, abbiamo proseguito nella nostra futile lotta contro un destino più grande di noi. Ci siamo creduti superiori al mondo, alla morte, persino alla vita. Abbiamo ricreato vita, l’abbiamo introdotta nella nostra misera esistenza quotidiana, ci siamo ostinati a portarci appresso tutto ciò che ci era caro. Non abbiamo mai imparato a dire addio, non ci siamo mai abituati al commiato. Ma il conto arriva sempre. Io sono qua a pagarlo, davanti alla beffa che il mondo si fa di me e della mia minuscola presenza, della mia lacrimosa tragedia da quattro soldi. In un attimo, la macchina si spegne, mio marito con lei. L’ospedale si ottenebra davanti ad un’alba che non è mai stata più lucente, un sole scintillante compare all’orizzonte, forte, ruggente, impavido. Nell’umanità impazza il caos.
Non trovo nemmeno la forza di alzarmi da questa sedia. Le lacrime si annidano agli angoli dei miei occhi lucidi, la mia faccia si comprime in una smorfia sofferente, ma pacata, quasi serena. Sento la mia nuora chiamarmi, da fuori: “Alba!”.
Già, proprio così. Quanta ironia.
Quanta ironia.

martedì 19 maggio 2015

Life's too short to learn German


As a student of German, I always have people say to me that German is a hard and difficult language. There certainly is a seed of truth in that. German is undoubtedly a less melodic language than Italian. It generally has harsher sounds and it quite inevitably calls to mind National-Socialism and Angela Merkel. Nonetheless, I personally think that German also has pleasant sounds, but I find it quite hard to convey them through a virtual page. For this reason, I’ll limit myself to explaining why I find a language like German extremely fascinating.

The basic principle of German is that every word can be linked to others in order to put across a certain message. It is quite a flexible language in terms of vocabulary – as opposed to English, I think, where vocabulary is extremely varied but one word generally sounds ‘good’ only with a few others – and it is extremely inflexible in terms of grammar. One of the major problems is represented by cases, which, despite being just four, become quite tricky when combined with three different genders – masculine, feminine, and neuter – and several distinctions, especially in the case of adjectives, which take different endings according to what comes before. Were I to say ‘happy people’ and ‘the happy people’, there would be a final ‘n’ which would distinguish between one ‘happy’ and the other.

As far as syntax goes, periods can be extremely long and they generally save up the verb for the end, which might seem at first absolutely illogical. Paradoxically enough, in German it is fundamental to listen to the end of the sentence rather than its beginning, because that’s where the verb usually is – at least in subordinate clauses. In languages such as English or Italian, it is not even necessary to end sentences in order for the other person to understand our message, so there is definitely a great gap between those and German.

That being said, my post intended to illustrate a couple of examples of how German creates words which I find fascinating – and also quite untranslatable. I’m not simply referring to the fact that gloves are in German ‘handshoes’ (die Hand = hand; der Schuh = shoe; der Handschuh = glove) or to the fact that a refrigerator is a ‘cool cupboard’ (der Schrank = cupboard/wardrobe; kühl = cool; der Kühlschrank = refrigerator). Here are a few German words which evoke wonderful ideas and which I find particularly intriguing.

1. die Ellenbogengesellschaft
(literally, "elbows-society")
 
This is a concept which gained particular significance thanks to expressions such as ‘homo homini lupus’ or, in Hegelian terms, ‘Spiritual Animal Kingdom’ (‘das geistige Tierreich’). Basically, it is the concept on which today’s Capitalist society is based, namely that of fierce competition. In an ‘elbows-society’, individuals elbow their way among their fellows in order to prevail over the masses. This is an idea which is conjured up by one word in German, and this is why I find it fascinating.

2. die Prinzipienreiterei (literally, "principles-cavalry")

This is a word which I found in Theodor Fontane’s Effi Briest and which is particularly useful in the depiction of one of the major characters, i.e. Baron von Innstetten, the eponymous character’s husband. This term describes a nearly obsessive clinging to principles, be they self-imposed or dictated by society. This means therefore that a person presenting this feature will not be able to act independently, but he or she will always have to recall social norms before deciding which course of action is the one to follow. In the case of Innstetten, he finds out that his wife betrayed him over six years before and he feels obliged to confront his former rival in a duel – besides distancing her from their family. This is of course because it was socially necessary to challenge somebody to a duel if they offended you, especially when it was to do with a problem which law did not address.

3. das Fingerspitzengefühl (literally, "fingertips-feeling")

This term expresses what is generally called savoir faire or in some cases it just means tact, but I find the German word much more evocative and interesting.

4. der Ohrwurm (literally, "earworm")

Although this term might evoke quite unpleasant images, in colloquial German it indicates that sort of song which is extremely catchy and ‘gets in to your ear’ quite easily. Once again, the German seems to be much more metaphorical and evocative than other languages.

5. das Fernweh (literally, "distance-pain")

This term basically describes a sort of longing for far away countries, even though some people claim that it describes instead a longing for countries you’ve never visited. The Duden dictionary describes this term as ‘Sehnsucht nach der Ferne, nach fernen Ländern’, namely as a ‘longing for distance, for distant countries’.
I hope this post is at least half as interesting as these words are in my eyes. Meanwhile, let me just repeat that
"Das Leben ist zu kurz, um Deutsch zu lernen."
"Life is too short to learn German."


domenica 17 maggio 2015

My photos - The Last Judgment


Ever since I started developing this passion for photography, I thought that it could be fascinating to link a particular shot with a particular thought found in a book – or to whole books, in some cases. I’ve decided to post one here.



1. The Last Judgment
« Dieu n'est pas nécessaire pour créer la culpabilité, ni punir. Nos semblables y suffisent, aidés par nous-mêmes. [...] Je vais vous dire un grand secret, mon cher. N'attendez pas le Jugement dernier. Il a lieu tous les jours. »
‘God is not necessary in order to create guiltiness, or to punish. Our fellow humans suffice, aided by ourselves. […] I’ll let you in on this big secret, my dear. Don’t wait for the Last Judgment. It happens every day.’
[Albert Camus, La Chute]

Albert Camus, French writer of the half of last century, offers in this captivating novel – or monologue? – entitled The Fall (1956) a view of modernity which is as unsettling as truthful. He maintains, and with him Jean-Paul Sartre especially in his play Huis clos (No Exit, 1944), that modern man cannot refrain from constantly judging all that surrounds him, thus rendering that famous and fearsome Last Judgment a quotidian affair. As Sartre writes in the aforementioned play,
« L'enfer, c'est les Autres. »
‘Hell is other people.’
The same hell which used to be located underground, a macabre, darkness-ridden place, appears now to surface and replace everyday life. And this hell consists precisely in the fact that modern man cannot but be at the same time victim and perpetrator of the psychological violence which, on the one hand, he endures but which on the other he has to inflict upon others. When he judges, he feels, he thinks, he cannot help at the same time utilising the same instruments which other people have given him, thus subjugating himself to the image and the opinion of him shared by them. Modern man is therefore utterly dependent on other people, thereby rendering this judgment a feature which he cannot separate from himself. This does not mean, though, that there is no way of redeeming himself from this, and Camus and Sartre, as a professor in the animation film Waking Life (Richard Linklater, 2001) points out, advocate on the one hand a philosophy of crisis, Existentialism, but on the other they intend at the same time to put across a positive message, a message of hope, within the hell of modernity. In fact, they both regard a way to salvation, a path leading to the betterment of society, as part of their plan. This is made possible by beginning with an engagement, i.e. by engaging intellectuals and modern men in the practicalities of life.

My photograph, which was taken in Piazza San Pietro (Vatican City), intended to get this message across, namely that nowadays the Last Judgment takes place every day without us noticing, but we paradoxically keep projecting it elsewhere, towards a nearly divine jury who look upon us whilst the sky acts as a spokesman for the fundamental moment which it must represent for each of us. This photo, in other words, depicts the Last Judgment in the collective imagination, whereas the quote which I have reported and explained intends instead to draw attention to the contrast between this and what existentialist writers maintained.

About Golconda


I’m an Italian guy with a passion for art, literature, and culture. I study German in England (it does make sense, I swear) and in my spare time I like to write and to take photos. I really appreciate art per se and that is the main reason why I started this blog. Plus, I have lately felt the compulsion to write and divulge.

I love German and everything that’s to do with its history, its culture, its philosophy, its literature. I love English too, which is one of the reasons why I study in England. I also studied French for several years and I had the opportunity to study its wonderful literature. I also find Italian, the language in which I usually write, an extremely fascinating language.

I think that writing and photography are two of the ways in which I can express myself by projecting outside of me what is the most intimate part of my personality. This blog originates from the hope of stimulating people and of conveying my passions and interests.

This blog’s name, Golconda, on the one hand harks back to René Magritte’s 1953 painting representing bourgeois men raining down – an image which I find interesting in that it highlights the loss of individuality which Capitalism and modern society have brought about. On the other hand, it also recalls Golconda, a city which used to be an important economic and cultural centre in the Middle Ages but which started falling apart from 16th/17th century onwards. At the times it was renowned especially because of its diamond mines, which were synonymous with great wealth and prestige for the Europeans of the time.

This blog therefore arises from the necessity of exploiting the incredible quantity of material that is present in what Goethe called Weltliteratur (world literature) because I think that it is precisely in these wealthy ruins that we can hope to reconstruct ourselves in an age in which people rain down in the exact same way. Culture may not be edible, but at least it can help us grow and improve ourselves. This blog wants to be the practical demonstration of this.

venerdì 1 maggio 2015

Il fabbro


Dato che son tornato ad avere un minimo di tempo libero, sono riuscito a scrivere un altro pezzo qualche sera fa, che qui ripropongo. Si tratta di un monologo piuttosto breve (due pagine in Word), chiaramente con un messaggio. Come sempre, rimango aperto a pareri altrui, soprattutto perché in questo caso vorrei capire se questo messaggio arrivi o meno, quindi sentitevi liberi di leggere, commentare, criticare, e tutto ciò che ci sta in mezzo. Ogni sforzo è apprezzato.





Eccomi qui. In questa stanza, in questa prigione. Un uccello in gabbia. Cosa si può fare in una stanza da soli tutto il tempo? Quanto sono in grado di tollerare la mia stessa presenza? La mia triste compagnia? Nessuno sguardo altrui, nessuna voce diversa dalla mia; se non mi muovo, se non parlo, se non fiato, il silenzio. Sono bloccato qua dentro da soli cinque minuti e già vorrei andarmene, uscire, farmi accarezzare dalla fresca aria della mattina, quella stessa che d’inverno ti sveglia come uno schiaffo tagliente e che ti convince che devi essere produttivo, devi andare là fuori e conquistare le masse, convincerle a comprare prodotti non tuoi ma che in qualche modo rappresenti. È così comodo lasciarsi trascinare qua e là da degli oggetti. Gli stessi oggetti che portano il pane in tavola ogni giorno, certo, a volte mi lasciano senza un soldo per giorni, però poi tornano, è quello l’importante in fondo. Tornano. Mi riabbracciano, mi danno una pacca sulla schiena, mi sussurrano qualcosa di accattivante ma distaccato nell’orecchio, due pacche solide, rapide, sprezzanti, e io sono pronto per ripartire. “Verso nuove mete!” Che slogan infame. Io torno a crederci ogni volta, proprio come i miei clienti. Pensano di ricavare davvero qualcosa di nuovo da ciò che vendo loro. Nemmeno l’ombra del dubbio, i loro occhi brillano di trepidazione non appena sentono qualche termine tecnologico, qualcosa di inaccurato, di poco adatto alle loro esigenze, ma che tuttavia in qualche modo sa vincere i loro sensi e il loro raziocinio. Niente di più facile. Un sorriso, una facciata bianca ma radiante, e il gioco è fatto. Perché questo in fondo è, un gioco. È più difficile convincere un cane a mollare il suo gioco. Almeno loro esitano un attimo prima di mollarlo per un altro, cercano di restare fedeli a loro stessi. Noi no. Ci riempiamo di estasi, di gioia, vogliamo subito il nuovo oggetto più luccicante, più tecnologico, più costoso. Il top della gamma. Questo lavoro mi distrugge. Ogni mattina mi sveglio e ridipingo una facciata decrepita, malcurata, riempio tutte le sue crepe, una passata di pittura bianca e sono pronto per ricominciare. Tutto come nuovo. Ogni sofferenza trascurata, ogni pensiero accantonato, ogni finto sorriso pronto ad essere agilmente estratto dalla manica del mio abito di prima qualità. E ora mi ritrovo qua, pronto ad esibire la mia finzione al mondo, ma impossibilitato a farlo perché chiuso in questa maledettissima stanza disadorna e miserabile. Dovrei trovare un modo di coprire la muffa in bagno e in cucina. Sono ragnatele quelle? Anche la crepa sul soffitto della camera andrebbe sistemata. Ogni volta che mi sdraio nel letto spossato dalla giornata di lavoro mi tocca osservarla, una voragine che minaccia di crollare. Ogni notte la prego di rimanere dov’è, di non deteriorare; ogni mattina la ritrovo lì non appena apro i miei occhi. Non si riargina, resta dov’è. Aspetta, pazientemente, che io abbia il tempo di occuparmi di lei. Ma io sono troppo stanco e non appena tocco il letto crollo in sogni più grandi di me. Vedo la mia carriera, una lunga scalinata verso il cielo, di quel marmo bianco che promette felicità con la sua levigatezza. Poi mi sveglio e vedo questo triste trilocale in una periferia cupa ed inquinata. Divano di terza mano, sedie e tavolo di quarta segata. Tutto ciò per poter mantenere un corpo in piedi, per poterlo sospingere un po’ più in là verso l’inevitabile deterioramento, per poter tardare ancora un po’ il momento del giudizio. Una maschera vicino alla porta, pronta ad essere indossata. Era ben ancorata al mio viso, ma poi quella stramaledetta serratura ha deciso di bloccarsi. Sento di non potermi più fidare degli oggetti. Come se stessi facendo loro un torto a svenderli a chiunque sia pronto a scambiarli per dei miseri quattrini. È così che mi ripagano, distruggendo la fiducia reciproca. Che cos’è il mio mondo senza un briciolo di fiducia? In cosa devo credere io? In Dio? Nella volta celeste? In qualcosa molto più grande di me e del mio tempo? Sono solo un uomo, un rappresentante, un venditore che cerca di campare un altro po’. Chiedo solo un po’ di clemenza. Vorrei una vita tollerabile, ma mi accontento di un’esistenza spossante che mi privi del tempo per pensare. Voglio solo rincasare con qualche soldo in tasca e con la consapevolezza che riuscirò a mettere qualcosa nello stomaco anche stasera. Non ho altro. Non cerco altro. Questa è la mia vita, a ciò rivolgo i miei pensieri, quando posso. Non alle crepe nel soffitto, non alla muffa negli angoli, non alle ragnatele, e nemmeno al mobilio povero e freddo di questo appartamento. Tutto ciò che conta è avere un sorriso stampato in faccia quando si esce, quando si va là fuori a vendere sé stessi; bisogna mantenere il giardino curato, le siepi potate periodicamente, bisogna salutare il vicino quando lo si incontra, bisogna sorridere al sole, alle nuvole, alla pioggia e alla grandine. Non è importante cosa si annida negli angoli più bui della propria casa, perché a casa siamo qualcun altro e a nessuno interessa chi siamo. Nessuno vuole davvero sapere quali pensieri affollino la tua povera mente consunta. Indossa la tua logora maschera, la tua sofferenza non mi interessa e non mi tocca! Stringi i denti in un sorriso, trattieni il sudore e continua a marciare! Sii felice, ridi più spesso! Cos’è quel muso lungo? Suvvia, la vita è una sola! Non abbiamo tutto questo tempo, goditela! Che spasso la gente. Ridipingono la facciata ogni giorno con pennellate rapide, si aggiustano il trucco e il parrucco, poi vanno là fuori a recitare la loro parte. La vita è un palcoscenico! Ma quale Amleto, fammi un po’ quell’imitazione che mi piace tanto! Ricicla qualche battuta dell’ultimo comico della tivvù, fammi sentire un po’ come te la cavi con il dialetto! Bravo, bravo, ora rotolati un po’ per terra, ecco, così, bravo! Oh tu sì che sai come farmi passare bene il tempo!
Ho sentito un rumore. Sarà il fabbro? Son già passati dieci minuti da quando l’ho chiamato, aveva detto che sarebbe passato subito. Ancora niente. Non ho mica tempo da perdere io. Devo lavorare, uscire, sbrigare cose, incontrare persone! Devo vedere quel cliente a cui piacciono tanto le cose luccicanti. Povera testolina, i suoi neuroni si sono fermati prima dei modi di dire. Com’è che era? Non è tutto oro...? Ah già, sì, sì. Era proprio così. Servirà che io ripassi un po’ qualche frase di circostanza, non posso farmi trovare impreparato sul momento! Che razza di venditore sarei mai se non sapessi dire qualcosa di appropriato per scatenare l’ilarità vuota e circostanziale dei rapporti commerciali? Ma quali rapporti commerciali, io costruisco rapporti umani! È così che si vende! Come sta suo figlio, avvocato? Sta ancora con quella splendida ragazza? Ah, bene, bene! Ci infili qualche parola altisonante e sono tuoi, come quando mangi il salame e il cane ti fissa stralunato. Sì, è proprio quello che piace tanto a te! Quello con quel sapore tanto buono, sì, quello lì, ecco, bravo, fai muovere un po’ la coda, ma come sei carino, dai una fetta te la sei meritata! E poi lo osservi mentre mastica in modo convulso, maldestro, animalesco. Però in fondo ti piace e sai che la volta successiva gliene darai un altro po’. Per oggi, però, ne hai avuto abbastanza, una sonora grattata sotto al mento e già è tuo, sai che tornerà non appena tirerai fuori qualcosa di allettante. Solo i migliori clienti per me! Dove diavolo è finito quel fabbro? Pensavo di potermi fidare di lui. Dodici minuti e ancora nulla. Il ticchettare dell’orologio inizia ad essere assillante. Si può sapere perché diavolo le lancette si muovono così lentamente? Dai, su, accelerate il passo, c’è gente che deve uscire da questo posto! O in alternativa fate un po’ di pressione a quel fabbro che si sta facendo desiderare. Manco fosse l’ultimo arrivo sul mercato! Lo sappiamo benissimo tutti che le porte esistono da secoli, il tuo lavoro non può essere arrivato molto più tardi, sicuramente non negli ultimi mesi, quindi datti una mossa!
Credo di stare impazzendo, quelle ragnatele sono proprio brutte da vedere. Meno male che non le vede nessuno oltre a me. E quella muffa emette proprio un odore nauseabondo. Fortuna che sono da solo qua dentro! Non credo che potrei tollerare la presenza di qualcun altro qui. Per non parlare della crepa sul soffitto! Quella è terrificante, ora che la osservo bene. Potrei ritrovarmi qualcosa in casa da un momento all’altro, magari la tipica vicina di casa grassottella in vasca da bagno. Qualcosa di ridicolo, imbarazzante, poco sensato, qualcosa che preferirei lasciare esattamente dov’è. Forse è per questo che non trovo mai il tempo di pensare a tutte queste cose, perché non voglio farlo. Non voglio restare intrappolato qua dentro troppo a lungo, tra queste quattro spoglie e sudice pareti, sotto a questo soffitto che sta crollando, su questo pavimento freddo e rigido. No, no, devo uscire di qui. Mi manca l’aria, fatico a respirare, devo andarmene da qui, ho cose da sbrigare, faccende varie di cui devo assolutamente occuparmi, insomma fammi uscire di qui, maledetto portone logoro e pesante! Levati dalla mia strada, fammi uscire da questo inferno putrido, non voglio stare qui! Fabbro, fabbro! È Lei? Si è bloccata la serratura, mi apra per favore che ho degli appuntamenti molto urgenti!
Oh sia lodato il cielo, La ringrazio moltissimo, sento la serratura girare finalmente! Grazie infinite, Lei mi ha salvato! Grazie!
La moglie tutto bene?