domenica 17 maggio 2015

My photos - The Last Judgment


Ever since I started developing this passion for photography, I thought that it could be fascinating to link a particular shot with a particular thought found in a book – or to whole books, in some cases. I’ve decided to post one here.



1. The Last Judgment
« Dieu n'est pas nécessaire pour créer la culpabilité, ni punir. Nos semblables y suffisent, aidés par nous-mêmes. [...] Je vais vous dire un grand secret, mon cher. N'attendez pas le Jugement dernier. Il a lieu tous les jours. »
‘God is not necessary in order to create guiltiness, or to punish. Our fellow humans suffice, aided by ourselves. […] I’ll let you in on this big secret, my dear. Don’t wait for the Last Judgment. It happens every day.’
[Albert Camus, La Chute]

Albert Camus, French writer of the half of last century, offers in this captivating novel – or monologue? – entitled The Fall (1956) a view of modernity which is as unsettling as truthful. He maintains, and with him Jean-Paul Sartre especially in his play Huis clos (No Exit, 1944), that modern man cannot refrain from constantly judging all that surrounds him, thus rendering that famous and fearsome Last Judgment a quotidian affair. As Sartre writes in the aforementioned play,
« L'enfer, c'est les Autres. »
‘Hell is other people.’
The same hell which used to be located underground, a macabre, darkness-ridden place, appears now to surface and replace everyday life. And this hell consists precisely in the fact that modern man cannot but be at the same time victim and perpetrator of the psychological violence which, on the one hand, he endures but which on the other he has to inflict upon others. When he judges, he feels, he thinks, he cannot help at the same time utilising the same instruments which other people have given him, thus subjugating himself to the image and the opinion of him shared by them. Modern man is therefore utterly dependent on other people, thereby rendering this judgment a feature which he cannot separate from himself. This does not mean, though, that there is no way of redeeming himself from this, and Camus and Sartre, as a professor in the animation film Waking Life (Richard Linklater, 2001) points out, advocate on the one hand a philosophy of crisis, Existentialism, but on the other they intend at the same time to put across a positive message, a message of hope, within the hell of modernity. In fact, they both regard a way to salvation, a path leading to the betterment of society, as part of their plan. This is made possible by beginning with an engagement, i.e. by engaging intellectuals and modern men in the practicalities of life.

My photograph, which was taken in Piazza San Pietro (Vatican City), intended to get this message across, namely that nowadays the Last Judgment takes place every day without us noticing, but we paradoxically keep projecting it elsewhere, towards a nearly divine jury who look upon us whilst the sky acts as a spokesman for the fundamental moment which it must represent for each of us. This photo, in other words, depicts the Last Judgment in the collective imagination, whereas the quote which I have reported and explained intends instead to draw attention to the contrast between this and what existentialist writers maintained.

About Golconda


I’m an Italian guy with a passion for art, literature, and culture. I study German in England (it does make sense, I swear) and in my spare time I like to write and to take photos. I really appreciate art per se and that is the main reason why I started this blog. Plus, I have lately felt the compulsion to write and divulge.

I love German and everything that’s to do with its history, its culture, its philosophy, its literature. I love English too, which is one of the reasons why I study in England. I also studied French for several years and I had the opportunity to study its wonderful literature. I also find Italian, the language in which I usually write, an extremely fascinating language.

I think that writing and photography are two of the ways in which I can express myself by projecting outside of me what is the most intimate part of my personality. This blog originates from the hope of stimulating people and of conveying my passions and interests.

This blog’s name, Golconda, on the one hand harks back to René Magritte’s 1953 painting representing bourgeois men raining down – an image which I find interesting in that it highlights the loss of individuality which Capitalism and modern society have brought about. On the other hand, it also recalls Golconda, a city which used to be an important economic and cultural centre in the Middle Ages but which started falling apart from 16th/17th century onwards. At the times it was renowned especially because of its diamond mines, which were synonymous with great wealth and prestige for the Europeans of the time.

This blog therefore arises from the necessity of exploiting the incredible quantity of material that is present in what Goethe called Weltliteratur (world literature) because I think that it is precisely in these wealthy ruins that we can hope to reconstruct ourselves in an age in which people rain down in the exact same way. Culture may not be edible, but at least it can help us grow and improve ourselves. This blog wants to be the practical demonstration of this.

venerdì 1 maggio 2015

Il fabbro


Dato che son tornato ad avere un minimo di tempo libero, sono riuscito a scrivere un altro pezzo qualche sera fa, che qui ripropongo. Si tratta di un monologo piuttosto breve (due pagine in Word), chiaramente con un messaggio. Come sempre, rimango aperto a pareri altrui, soprattutto perché in questo caso vorrei capire se questo messaggio arrivi o meno, quindi sentitevi liberi di leggere, commentare, criticare, e tutto ciò che ci sta in mezzo. Ogni sforzo è apprezzato.





Eccomi qui. In questa stanza, in questa prigione. Un uccello in gabbia. Cosa si può fare in una stanza da soli tutto il tempo? Quanto sono in grado di tollerare la mia stessa presenza? La mia triste compagnia? Nessuno sguardo altrui, nessuna voce diversa dalla mia; se non mi muovo, se non parlo, se non fiato, il silenzio. Sono bloccato qua dentro da soli cinque minuti e già vorrei andarmene, uscire, farmi accarezzare dalla fresca aria della mattina, quella stessa che d’inverno ti sveglia come uno schiaffo tagliente e che ti convince che devi essere produttivo, devi andare là fuori e conquistare le masse, convincerle a comprare prodotti non tuoi ma che in qualche modo rappresenti. È così comodo lasciarsi trascinare qua e là da degli oggetti. Gli stessi oggetti che portano il pane in tavola ogni giorno, certo, a volte mi lasciano senza un soldo per giorni, però poi tornano, è quello l’importante in fondo. Tornano. Mi riabbracciano, mi danno una pacca sulla schiena, mi sussurrano qualcosa di accattivante ma distaccato nell’orecchio, due pacche solide, rapide, sprezzanti, e io sono pronto per ripartire. “Verso nuove mete!” Che slogan infame. Io torno a crederci ogni volta, proprio come i miei clienti. Pensano di ricavare davvero qualcosa di nuovo da ciò che vendo loro. Nemmeno l’ombra del dubbio, i loro occhi brillano di trepidazione non appena sentono qualche termine tecnologico, qualcosa di inaccurato, di poco adatto alle loro esigenze, ma che tuttavia in qualche modo sa vincere i loro sensi e il loro raziocinio. Niente di più facile. Un sorriso, una facciata bianca ma radiante, e il gioco è fatto. Perché questo in fondo è, un gioco. È più difficile convincere un cane a mollare il suo gioco. Almeno loro esitano un attimo prima di mollarlo per un altro, cercano di restare fedeli a loro stessi. Noi no. Ci riempiamo di estasi, di gioia, vogliamo subito il nuovo oggetto più luccicante, più tecnologico, più costoso. Il top della gamma. Questo lavoro mi distrugge. Ogni mattina mi sveglio e ridipingo una facciata decrepita, malcurata, riempio tutte le sue crepe, una passata di pittura bianca e sono pronto per ricominciare. Tutto come nuovo. Ogni sofferenza trascurata, ogni pensiero accantonato, ogni finto sorriso pronto ad essere agilmente estratto dalla manica del mio abito di prima qualità. E ora mi ritrovo qua, pronto ad esibire la mia finzione al mondo, ma impossibilitato a farlo perché chiuso in questa maledettissima stanza disadorna e miserabile. Dovrei trovare un modo di coprire la muffa in bagno e in cucina. Sono ragnatele quelle? Anche la crepa sul soffitto della camera andrebbe sistemata. Ogni volta che mi sdraio nel letto spossato dalla giornata di lavoro mi tocca osservarla, una voragine che minaccia di crollare. Ogni notte la prego di rimanere dov’è, di non deteriorare; ogni mattina la ritrovo lì non appena apro i miei occhi. Non si riargina, resta dov’è. Aspetta, pazientemente, che io abbia il tempo di occuparmi di lei. Ma io sono troppo stanco e non appena tocco il letto crollo in sogni più grandi di me. Vedo la mia carriera, una lunga scalinata verso il cielo, di quel marmo bianco che promette felicità con la sua levigatezza. Poi mi sveglio e vedo questo triste trilocale in una periferia cupa ed inquinata. Divano di terza mano, sedie e tavolo di quarta segata. Tutto ciò per poter mantenere un corpo in piedi, per poterlo sospingere un po’ più in là verso l’inevitabile deterioramento, per poter tardare ancora un po’ il momento del giudizio. Una maschera vicino alla porta, pronta ad essere indossata. Era ben ancorata al mio viso, ma poi quella stramaledetta serratura ha deciso di bloccarsi. Sento di non potermi più fidare degli oggetti. Come se stessi facendo loro un torto a svenderli a chiunque sia pronto a scambiarli per dei miseri quattrini. È così che mi ripagano, distruggendo la fiducia reciproca. Che cos’è il mio mondo senza un briciolo di fiducia? In cosa devo credere io? In Dio? Nella volta celeste? In qualcosa molto più grande di me e del mio tempo? Sono solo un uomo, un rappresentante, un venditore che cerca di campare un altro po’. Chiedo solo un po’ di clemenza. Vorrei una vita tollerabile, ma mi accontento di un’esistenza spossante che mi privi del tempo per pensare. Voglio solo rincasare con qualche soldo in tasca e con la consapevolezza che riuscirò a mettere qualcosa nello stomaco anche stasera. Non ho altro. Non cerco altro. Questa è la mia vita, a ciò rivolgo i miei pensieri, quando posso. Non alle crepe nel soffitto, non alla muffa negli angoli, non alle ragnatele, e nemmeno al mobilio povero e freddo di questo appartamento. Tutto ciò che conta è avere un sorriso stampato in faccia quando si esce, quando si va là fuori a vendere sé stessi; bisogna mantenere il giardino curato, le siepi potate periodicamente, bisogna salutare il vicino quando lo si incontra, bisogna sorridere al sole, alle nuvole, alla pioggia e alla grandine. Non è importante cosa si annida negli angoli più bui della propria casa, perché a casa siamo qualcun altro e a nessuno interessa chi siamo. Nessuno vuole davvero sapere quali pensieri affollino la tua povera mente consunta. Indossa la tua logora maschera, la tua sofferenza non mi interessa e non mi tocca! Stringi i denti in un sorriso, trattieni il sudore e continua a marciare! Sii felice, ridi più spesso! Cos’è quel muso lungo? Suvvia, la vita è una sola! Non abbiamo tutto questo tempo, goditela! Che spasso la gente. Ridipingono la facciata ogni giorno con pennellate rapide, si aggiustano il trucco e il parrucco, poi vanno là fuori a recitare la loro parte. La vita è un palcoscenico! Ma quale Amleto, fammi un po’ quell’imitazione che mi piace tanto! Ricicla qualche battuta dell’ultimo comico della tivvù, fammi sentire un po’ come te la cavi con il dialetto! Bravo, bravo, ora rotolati un po’ per terra, ecco, così, bravo! Oh tu sì che sai come farmi passare bene il tempo!
Ho sentito un rumore. Sarà il fabbro? Son già passati dieci minuti da quando l’ho chiamato, aveva detto che sarebbe passato subito. Ancora niente. Non ho mica tempo da perdere io. Devo lavorare, uscire, sbrigare cose, incontrare persone! Devo vedere quel cliente a cui piacciono tanto le cose luccicanti. Povera testolina, i suoi neuroni si sono fermati prima dei modi di dire. Com’è che era? Non è tutto oro...? Ah già, sì, sì. Era proprio così. Servirà che io ripassi un po’ qualche frase di circostanza, non posso farmi trovare impreparato sul momento! Che razza di venditore sarei mai se non sapessi dire qualcosa di appropriato per scatenare l’ilarità vuota e circostanziale dei rapporti commerciali? Ma quali rapporti commerciali, io costruisco rapporti umani! È così che si vende! Come sta suo figlio, avvocato? Sta ancora con quella splendida ragazza? Ah, bene, bene! Ci infili qualche parola altisonante e sono tuoi, come quando mangi il salame e il cane ti fissa stralunato. Sì, è proprio quello che piace tanto a te! Quello con quel sapore tanto buono, sì, quello lì, ecco, bravo, fai muovere un po’ la coda, ma come sei carino, dai una fetta te la sei meritata! E poi lo osservi mentre mastica in modo convulso, maldestro, animalesco. Però in fondo ti piace e sai che la volta successiva gliene darai un altro po’. Per oggi, però, ne hai avuto abbastanza, una sonora grattata sotto al mento e già è tuo, sai che tornerà non appena tirerai fuori qualcosa di allettante. Solo i migliori clienti per me! Dove diavolo è finito quel fabbro? Pensavo di potermi fidare di lui. Dodici minuti e ancora nulla. Il ticchettare dell’orologio inizia ad essere assillante. Si può sapere perché diavolo le lancette si muovono così lentamente? Dai, su, accelerate il passo, c’è gente che deve uscire da questo posto! O in alternativa fate un po’ di pressione a quel fabbro che si sta facendo desiderare. Manco fosse l’ultimo arrivo sul mercato! Lo sappiamo benissimo tutti che le porte esistono da secoli, il tuo lavoro non può essere arrivato molto più tardi, sicuramente non negli ultimi mesi, quindi datti una mossa!
Credo di stare impazzendo, quelle ragnatele sono proprio brutte da vedere. Meno male che non le vede nessuno oltre a me. E quella muffa emette proprio un odore nauseabondo. Fortuna che sono da solo qua dentro! Non credo che potrei tollerare la presenza di qualcun altro qui. Per non parlare della crepa sul soffitto! Quella è terrificante, ora che la osservo bene. Potrei ritrovarmi qualcosa in casa da un momento all’altro, magari la tipica vicina di casa grassottella in vasca da bagno. Qualcosa di ridicolo, imbarazzante, poco sensato, qualcosa che preferirei lasciare esattamente dov’è. Forse è per questo che non trovo mai il tempo di pensare a tutte queste cose, perché non voglio farlo. Non voglio restare intrappolato qua dentro troppo a lungo, tra queste quattro spoglie e sudice pareti, sotto a questo soffitto che sta crollando, su questo pavimento freddo e rigido. No, no, devo uscire di qui. Mi manca l’aria, fatico a respirare, devo andarmene da qui, ho cose da sbrigare, faccende varie di cui devo assolutamente occuparmi, insomma fammi uscire di qui, maledetto portone logoro e pesante! Levati dalla mia strada, fammi uscire da questo inferno putrido, non voglio stare qui! Fabbro, fabbro! È Lei? Si è bloccata la serratura, mi apra per favore che ho degli appuntamenti molto urgenti!
Oh sia lodato il cielo, La ringrazio moltissimo, sento la serratura girare finalmente! Grazie infinite, Lei mi ha salvato! Grazie!
La moglie tutto bene?

lunedì 29 settembre 2014

L'inferno del ricordo - Diario di un individuo ordinario

Dopo aver riflettuto a lungo, mi son deciso a pubblicare qui dei brani tratti dal mio secondo racconto dal titolo "L'inferno del ricordo - Diario di un individuo ordinario". Il motivo principale che mi spinge a non pubblicare il racconto per intero è la sua lunghezza (16 pagine). Spero che qualcuno lo trovi perlomeno interessante e, come sempre, rimango aperto a critiche e pareri contrastanti.

[Egon Schiele, Selbstseher oder Tod und Mann

L'inferno del ricordo
Diario di un individuo ordinario

di Luca Pinelli

19 agosto 2014

Sinossi: Andrea è il protagonista nonché narratore del racconto ed alterna alle sue pagine di diario le sue giornate del presente. La sua vita si trascina tra ricordo e azione, tra Melissa, ragazza del suo passato, ed Eleonora, ragazza del suo presente, che si offre a lui come un modo per liberarsi del peso che porta da quando la prima l'ha dovuto abbandonare. Le tematiche principali del racconto sono il ricordo e il contrasto fra natura e società.

Brano 1
Era un giovedì, quello strano giorno della settimana in cui la tua testa inizia già a prepararsi al week-end senza che tu possa davvero farci molto. Inizi a capire che anche quella settimana se ne sta andando via, sta svanendo in quell'oscuro spazio della nostra mente dove anche i giorni più insignificanti vengono in qualche modo memorizzati, ma in forma compressa. Ero lì, sotto al mio salice, che in fondo stava diventando un po' anche suo, ad aspettare Eleonora. L'autunno soffiava sul parco, portandone via le prime foglie più deboli. Il mio sguardo si posava sulle nuvole, rapide e passeggere, lasciandosi trasportare dal dolce vento autunnale del cambiamento. I colori stavano iniziando a cambiare. Il verde dell'estate si approssimava all'arancio, al rossastro, al giallo e in parte anche al marrone. Tutto era mutevole nella sua permanenza, proprio come le foglie che si rivestivano di colori nuovi per poi abbandonare la loro casa per posti e tempi nuovi. Spesso si posavano sull'enorme prato inglese davanti a me, un'enorme distesa di verde brillante. Ogni anno, l'autunno mi convinceva che qualcosa, nel mondo, si stava muovendo, mi esortava in parte a cambiare le mie foglie, mi convinceva che forse valeva la pena di non attrezzarsi per l'inverno, di lasciarsi avvolgere dal suo gelo e dalla sua opacità, sicuro in qualche modo che tutto ciò mi avrebbe scalfito ma mai sconfitto definitivamente. Lasciarsi scrivere dalle stagioni, questo era il mio desiderio a volte. Come se ogni stagione, nella sua straordinaria unicità, sapesse comunicare qualcosa di irripetibile, ineffabile, e forse persino incomprensibile. Per questo motivo mi piaceva quel parco. Era un microcosmo del cambiamento che sentivo stava attraversando la mia vita. E ad ogni passo, lasciava un segno, un'impronta, spesso camuffata, avvolta in spessi strati di straordinaria quotidianità. Una volta attraversata una nuova fase, tuttavia, ero in grado di riconoscerla, quella tacca lasciata sulla mia persona. Inizialmente ne sorridevo, forse me ne vergognavo un po', perché in fondo tutto era successo senza che io potessi accorgermene, ma magari gli altri l'avevano notato; quasi come se inavvertitamente ti spogliassi pian piano del tuo solito fogliame e gli altri si accorgessero, prima o poi, di essere circondati delle tue foglie e ti guardassero con sguardo tra il disorientato e lo scandalizzato mentre tu cerchi di coprirti come meglio puoi. E in quel momento, cerchi di convincere te stesso e tutti coloro che ti circondano che in fondo il cambiamento non appartiene al mondo umano, che non c'è mai nulla di nuovo sotto il sole, che la vita è fatta di un ciclo manicheo di distruzione e ricostruzione. Quello che è è sempre stato e sempre sarà. Quella sorta di continuum temporale ti conforta un po', è proprio ciò con cui cerchi disperatamente di coprirti mentre le tue foglie cambiano colore e pian piano ti abbandonano. Ma il tentativo è sempre vano. Il vento autunnale del cambiamento soffia anche su di te, che tu lo voglia accettare o meno.
In fondo, il mio tentativo consisteva precisamente nel cercare di coprirmi dal cambiamento attraverso le grandi fronde di quel salice, come se fosse già cambiato troppo nella mia vita e non fossi più disposto ad abbandonare queste vesti per delle nuove. Come se mi fossi immedesimato così tanto nella mia maschera, nel mio personaggio, da non volerli più abbandonare, da confonderli con la mia mutevole personalità. Come se le mie esperienze fossero state così univoche da condurmi su questo preciso cammino e non su un altro, come se mi avessero marchiato per sempre, come se le mie cicatrici non potessero più consentirmi di dimenticare, di cambiare, di vivere in modo diverso, chissà, magari anche in un modo migliore. Mi sentivo proprio come un terremotato che dopo aver subito diverse scosse non sa più camminare sulla terra ferma e cerca disperatamente di rifugiarsi in un posto sicuro, immobile, senza potersi più spostare.
[...]
Così tutto iniziò, così sguainai la mia spada contro i demoni del mio passato, pronto ad affrontarli, incitato da una compagna di avventure che si prospettava essere tanto fedele quanto simile a me. Da quel giorno, il vento autunnale del cambiamento tornò a soffiare nella mia vita. E io, per la prima volta, ero disposto ad uscire allo scoperto.

Brano 2
È incredibile quanto plasmiamo e al contempo veniamo plasmati da tutto ciò che ci circonda. Proiettiamo al di fuori di noi ciò che ci è più caro e al tempo stesso introiettiamo tutto ciò che esiste indipendentemente da noi. Facciamo nostro ciò che non lo è, rendiamo altrui ciò che invece riguarda le pieghe più recondite della nostra mente. L'autunno diventa sinonimo di cambiamento, la primavera di rinascita, l'inverno di dolore. Altre volte, invece, l'autunno viene a rappresentare il fallimento, la primavera l'indifferenza della natura alla sofferenza umana, l'inverno diviene sinonimo di candore e della gioia più profonda.
Due anni fa, la neve e il gelo di gennaio si caricarono di sentimenti estremamente positivi che stavo provando in quel periodo della mia vita. C'era una profonda dicotomia tra ciò che avveniva nella mia vita e ciò che invece succedeva al di fuori di essa. Mentre la gente pativa il freddo e doveva gestire come meglio poteva la grande quantità di neve che si accumulava nei propri giardini, sulle strade e sugli edifici, io scoprivo per la prima volta la grande gioia dell'amore e della perfetta corrispondenza tra me e Melissa. Con la primavera, la storia iniziò a complicarsi, mentre gli uccelli recuperavano le loro doti canore e rispolveravano il loro repertorio musicale. Il gelido inverno passato era ora dentro di me, mentre intorno a me la natura si destava con nuovi ritmi e colori. La natura, quell'anno, fu indifferente alla mia esistenza. Mentre la società ci guardava con disapprovazione, la natura non poneva ostacoli alla fioritura del nostro amore.
Oggigiorno, la natura e l'individuo sono ben discernibili, ma l'individuo è inscindibilmente legato alla società, che lui lo desideri o meno. Qualsiasi nostra azione ha un qualche impatto su tutti coloro che ci circondano. Il bene della comunità dipende da ciò che ognuno dei suoi membri compie e come egli contribuisce alla causa comune. Gli eventi e le catastrofi naturali, invece, si verificano senza che l'uomo possa effettivamente parteciparvi, ma hanno un profondo impatto su tutto ciò che egli ha costruito col tempo. Le inondazioni ci impediscono di farci una passeggiata per i campi, la neve crea ritardi ed ostruisce la nostra routine; quello che noi facciamo in questi casi è semplicemente trovare delle alternative, dei percorsi che ci tocca rispolverare per evitare quei limiti impostici dalla natura e dal suo inevitabile corso.
La società si sta avvicinando alla natura, sta assumendo la sua indifferenza e la sua crudeltà. Sempre più spesso, la gente addita in lontananza ciò che va contro le norme sociali come un qualcosa che va contro le leggi naturali e fisiche. La società, nonostante il suo carattere contrastante con la natura, si sta facendo portatrice di valori e norme che si vogliono elevare al rango di leggi naturali. Il Creonte di oggi non impone leggi personali, che danno voce alla sua particolare prospettiva, ma si fa portavoce delle grandi consuetudini sociali, quelle leggi non scritte che tutti rispettano con reverenza. E oggi ancora di più di ieri, Antigone è destinata a fallire, perché l'individuo non può nulla contro la società. Il gruppo di cui facciamo parte può benissimo fare a meno di un minuscolo ingranaggio, può assumere forme e funzioni diverse a seconda di chi desidera farne parte. La società, al giorno d'oggi, è un'interminabile marcia che calpesta crudelmente chiunque stramazzi a terra per la fatica o chiunque cerchi di discostarsene. Senza l'individuo, la società continua a marciare; senza la società, l'individuo è destinato ad essere annientato dai regolari, energici passi di coloro che accettano passivamente di farne parte. La corrente della società, al contempo madre e boia dell'individuo, travolge la singolarità degli individui e li sospinge in avanti, verso parti diverse della stessa riva. Così, noi, da individui, ci crediamo singoli ma siamo in realtà il prodotto delle forze sociali che ci circondano; ci pensiamo liberi nelle nostre scelte e nei nostri obiettivi, ma dobbiamo in realtà sottostare ai mezzi coercitivi della società di cui facciamo necessariamente parte; siamo esseri incapaci di nuotare controcorrente, perché l'altro in fin dei conti ci appartiene più di quanto siamo disposti ad accettare. Nella società troviamo le nostre ambizioni, troviamo qualcosa verso cui rivolgere i nostri sforzi; senza di essa, siamo arcieri senza bersagli, che scagliano frecce in tutte le direzioni nella speranza di colpire qualcosa. Il nostro potenziale come esseri umani rimane inutilizzato ed inesplorato, per il nostro sviluppo abbisogniamo dell'altro, del diverso, dell'alieno. Qualcuno o qualcosa da osservare, da rispettare, da temere, questa è l'esigenza tipicamente umana. E io, in fondo, non sono tanto diverso da tutti gli altri.

Brano 3
Ciao, volevo scusarmi per l'altro giorno. Ti sono grato per tutto il tempo che mi stai dedicando, ma credo di non meritarlo nemmeno. Il fatto è che davvero a volte credo ci sia qualcosa di sbagliato in me, qualche parte mancante o in più, qualcosa che mi impedisce di condurre un'esistenza serena. È come se la mia testa dovesse necessariamente continuare a produrre pensieri e discorsi senza che io possa farci nulla. Di giorno parlo con me stesso per dar voce a tutto ciò che ho dentro, ma poi di fronte ad altre persone rimango muto e tutto ciò che si vede da fuori è una facciata vuota, incolore, spoglia. Fisso l'orizzonte, deludo costantemente chiunque si avvicini a me. Sono inadatto a vivere.
Quindi mi scuso con te, Eleonora, per averti fatto perdere tutto questo tempo. Ci ho provato, mi sono aperto, ti ho lasciato vedere una parte di me, ho permesso ai ricordi di affiorare, ma tutto ciò mi ha riportato sul vecchio sentiero bagnato di sangue. Non voglio rivivere tutto questo, vorrei poter bruciare i ricordi proprio come carta. Vorrei potermi far cancellare la memoria di quei posti, del suo viso, della sua bellezza, dei nostri momenti migliori. Vorrei svegliarmi con la consapevolezza di aver completamente cancellato il suono della sua voce dalla mia testa, mentre in realtà è ancora quella che mi sveglia ogni mattina e che culla i miei demoni di notte. Le parole stentano a descrivere ciò che provo, come sempre. Nel tentativo di dar voce a ciò che ho dentro fallisco, non riesco a comprendere l'ineffabile oscurità che attanaglia la mia mente. Nulla di tutto ciò è intenzionale né tantomeno me ne compiaccio. È una lotta strenua ed interminabile la mia, quella contro Melissa ed il ricordo di lei. Sono costretto a convivere con il suo lascito ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della mia triste vita solitaria. Vorrei anche solo poter intravedere in lontananza un'uscita, una luce, qualcosa che possa guidarmi verso un futuro privo del suo profumo e della sua bellezza. Purtroppo rimango intrappolato in un inferno atroce e straziante, dove le fiamme del ricordo mi circondano e mi divorano la carne minuto dopo minuto. L'enfer, c'est le Souvenir
Con questa citazione rivisitata ti lascio crogiolare nella bellezza di questa panchina fuori dal tempo e dalla società, nella speranza che tu apprezzi il mio tentativo di renderti partecipe dei miei problemi. So che Sartre ti è caro, quindi spero che apprezzerai anche il mio tentativo di plasmare la citazione e adattarla alla mia storia. Mi dispiaccio della mia incapacità di recepire altre informazioni riguardo a te e ai tuoi problemi e, ancora una volta, mi confermo come un inetto narcisista sordo a tutto ciò che è altro rispetto al suo ego. Per te varrebbe la pena di essere diverso, meriti molto di più di quanto io sia in grado di offrirti. Le mie più umili scuse per tutta questa brutta esperienza.
Tuo per sempre,
Andrea

Brano 4
Sono le 5 del mattino e le tenebre stanno abbandonando questi posti per far spazio alla vita.
Vengo da una notte insonne, passata a rigirarmi nel letto, ad abbracciare il vuoto dell'assenza. All'assenza di Melissa, di Eleonora, di un compagno di viaggio, di qualcuno che possa ascoltarmi, capirmi, permettermi di comprendere il nulla che sento zampillare dentro di me. Sono solo. Solo, contro il tempo, contro il passato e il ricordo, il lascito che ogni persona ha lasciato in me. Le persone che ho abbandonato o da cui sono stato abbandonato sono sempre con me, dentro di me, mi parlano nei miei sogni migliori e nei miei incubi ricorrenti, si lamentano dei miei capricci, del mio affogare in questa desolazione che mi circonda. Mi indicano città diroccate, campi arsi dall'insopportabile calore di agosto, bestie feroci che digrignano i denti e mi osservano con sguardo assassino. Mi fanno notare gli avvoltoi che volano sopra alla mia testa, pronti a saziarsi della mia carne imputridita. Puntano il dito, mi fanno notare gli alberi spogli, fragili, ridicoli. Mettono in evidenza la mia disarmante piccolezza di fronte al mondo, ai grandi eventi che hanno luogo tutto intorno a me. Mi permettono di notare quanto sono minuscolo davanti alla volta celeste, davanti alla grande bellezza che mi colpisce frequentemente. Quella stessa grande bellezza che mi trascina in questa triste vita scevra di fede e speranza.
La luce compare all'orizzonte, richiama l'attenzione su di sé, ancora una volta mi avvolge, abbraccia l'orizzonte intero, poi piano piano si sparge su per il cielo e giù per la terra, finché io non mi ritrovo scoperto, illuminato, senza alcuna protezione. Mi sento spoglio, nudo, futile. Il sole sorge, splende, i raggi colpiscono la mia pelle, entrano nelle mie palpebre, in ogni mia cavità, la luce mi riempie di sé. Mi sento violato, abusato. I miei demoni, la mia oscurità si ritrae timidamente, schiva. Il mio corpo la avvolge, la protegge, la ripara da tutto ciò che può rischiare di urtarla, di dissipare le tenebre che non smettono di annebbiare la mia persona. Il calore, la luce mi infastidiscono, mi ritraggo anch'io, insieme alla mia oscurità, mi rinchiudo nel mio inferno del ricordo, in parte compiaciuto, in parte dolente. Perdo la parola, le frasi perdono di significato al di fuori di me e nulla riesce a trattenermi dalla disperazione. Affogo in questo oceano di ricordi, di lasciti, di persone assenti ma pur sempre presenti; cerco disperatamente uno scoglio, un'ancora, una barca in lontananza a cui io possa affidare la mia salvezza. Presto, però, capisco che l'appiglio che ho trovato non potrà durare molto, che dovrò nuovamente issare le vele per poi rigettarmi in questo oceano di deludenti illusioni. Mi convinco che questa persona sia diversa, che saprà comprendermi, che non ci sarà nemmeno bisogno di iniziare a parlare dei miei mille problemi perché capirà, intenderà ciò che provo senza che io debba parafrasare le strazianti emozioni che mi divorano minuto dopo minuto. Tento, fallisco, soffro. Ogni volta le stesse fasi, ogni volta dolori nuovi ma in fondo familiari, ogni volta gli stessi lividi ma in parti diverse del corpo.
Questa è una nuova alba, l'inizio di un nuovo giorno, una luce più brillante di quella passata, ma io non trovo la forza, mi accascio a terra, mi manca il respiro, sul mio petto il peso straziante di un bue massacrato a colpi di manganello e di pugnale. Zampilli di sangue, muggiti di sofferenza, dolori lancinanti e il macabro spettacolo della morte di una bestia da macello. Rimango paralizzato di fronte a tanta atrocità, schiacciato dal peso di tutto ciò che ho dentro, di tutti coloro che fanno ormai parte di me. Vorrei bruciare questi ricordi come carta, sfogliarli, sentirli miei di nuovo per poi abbandonarli per sempre. Vorrei saper cancellare alcune persone da me, tutti i ricordi a loro collegati, tutte le esperienze condivise, le emozioni sottaciute ma provate nel profondo. Vorrei liberarmi di questa soffocante presenza dentro di me che cerca di annientarmi, che dà voce ai miei impulsi autodistruttivi, che mi spinge sul ciglio del baratro e mi abbandona al vento tagliente che da un momento all'altro potrebbe gettarmi sopra a dei macigni appuntiti. Vorrei non dover portare costantemente nella mia bocca l'amaro sapore della morte e del nulla. Vorrei riempire tutto di sensi e colori miei. E invece, mi ritrovo a dover convivere con le solite, deludenti illusioni, con i miei mondi immaginari dove la felicità è a portata di mano, dove la vita fluisce naturalmente e io riesco ad assaporarla minuto per minuto.
Questo mondo facile non mi appartiene, sono destinato a percepire tutto ciò che supera questa concezione banale e semplicistica della vita. La mia esistenza non può essere considerata un susseguirsi interminabile di momenti effimeri, no, la mia esistenza si compone di momenti che in continuazione rimandano ad altro, a qualcosa di passato, ai miei trascorsi, alle mie esperienze. Ogni momento riassume tutto ciò che ho provato, risciacqua le mie ferite mal richiuse con acqua salata, mi ricorda costantemente tutto ciò a cui quel momento può rimandare. In me vivono dieci, cento, mille altri me, passati e presenti. Ognuno di loro vuole far sentire la propria voce e sovrastare quella degli altri. Sono un enorme conglomerato di diverse personalità che convivono l'una con l'altra, che lottano per riaffiorare, per sopravvivere, per poter continuare a vivere in un tempo che non è più il loro. E io, di fronte a questa alba e questo nuovo giorno, non posso far altro che rassegnarmi al mio destino di persona lacerata e logorata da mille altre. Pian piano, mi trascino verso il letto con occhi rigonfi di lacrime, mi accascio tra le coperte usurate ed accetto, rassegnato, la mia sensibilità ed il mio interminabile pensare.

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Mi permetto di non pubblicare il finale e di lasciare il racconto incompleto. Se qualcuno fosse interessato ad avere il racconto per intero non esiti a contattarmi e farò in modo di mandarglielo.