© Elena Pagnoni Photography |
Osservare
le persone ha sempre esercitato un certo fascino su di me. Guardarle camminare
per la strada con quel passo affrettato di chi è in ritardo per l’imminente
lezione di filologia germanica o di chi ha ricevuto una delusione troppo grande
per rimanere sotto l’occhio pubblico ancora a lungo; guardarle interagire tra
di loro, ridere degli errori altrui, saltellare allegramente in un pomeriggio
domenicale o trascinarsi a casa dopo una notte brava in discoteca; guardarle
pranzare sontuosamente attraverso il vetro di una brasserie, osservarle
masticare carne con disinvoltura e con un grande senso di civiltà. L’umanità è
lo spettacolo migliore a cui possiamo assistere. La lente pubblica non permette
a nessuno di passare inosservato e io, in fondo, non sono tanto diverso. Li
osservo nei loro gruppi selezionati come in quelli circostanziali, li guardo
nella loro pacifica solitudine come nel loro goffo stare insieme.
È questo
stare insieme, forse, ad avermi sempre creato problemi. Il perpetuo convivere
con l’altro, la continua lotta di capirlo, lo stesso identico risultato ogni
volta. Pensi di aver fatto breccia nel suo nucleo ma poi improvvisamente ti
accorgi di esserti perso un satellite. Fai quindi un passo indietro, lo
osservi, noti dei pezzi, delle parti mancanti, oscure, opache. Non riesci ad
avere una visione d’insieme, pur sapendo che una singola parte non significa
nulla da sola. Allora ricomponi quel puzzle con dei tuoi pezzi, meglio che
puoi, riarrangiandoli in combinazioni sempre nuove. Ciò che manca lo completi,
così, giusto per dare una sagoma meglio definita a quell’enigma. Comprendi le
sue parti ma non concepisci nemmeno la sua interezza.
Impari
ad osservare, a stare in disparte, a svincolarti dalle dinamiche sociali per
avere una visione migliore, cerchi insomma di creare tra te ed esse una
distanza tale da permettere il giudizio e la critica. Inizi a girarci intorno
come ad una statua su un piedistallo sopraelevato in un museo, osservandola da
diverse angolazioni ma pur sempre dalla tua modesta altezza. Pensi di
comprenderla in toto, di averne studiati i minimi dettagli, ma dimentichi di
non essere in grado di osservarla dall’alto. Non riesci a collegare i pezzi,
sei incerto sull’aspetto della parte di quella statua che è rivolta verso
l’alto. È in questa incompletezza di giudizio che procedi al completamento del
cerchio, alla rimozione di quell’incertezza che è condizione necessaria del tuo
osservare. Allo stesso modo in cui io osservo i passanti e immagino che siano
in ritardo per una lezione di filologia germanica o leggo sul loro volto una
delusione difficile da contenere, tutti noi completiamo le immagini degli altri
a nostro piacimento, tra elementi reali e collegamenti immaginari. Creiamo dei
personaggi nella nostra mente, diventiamo per un attimo drammaturghi e li
mettiamo in scena. “Vediamo che succede se metto insieme un ragazzo
ritardatario con uno dal cuore spezzato, chissà cosa succederebbe se il primo
si rivelasse la causa scatenante del dolore del secondo, che in realtà lo
starebbe quindi inseguendo per cercare vendetta.”
E allora
ci raccontiamo delle storie su ciò che ci circonda, ce ne convinciamo,
confondiamo mito e realtà, vissuto e raccontato, li fondiamo in un insieme
organico, in diverse combinazioni, sempre più avvincenti, sempre più
convincenti. Ecco qua la vita: un continuo tentativo di costruire impalcature
per sorreggere dei frammenti di una realtà insondabile. Come degli archeologi
che mettono insieme i pezzi di un tempio romano, aggiungendo qua e là delle
parti in mattone, giusto per collocare tutto al giusto posto. E tuttavia,
l’insieme è ancora frammentario, è lasciato in parte all’immaginazione
dell’osservatore, senza che questo, quindi, possa recepire un messaggio univoco.
E anche in questo sta la difficoltà infatti, comunicare all’altro, rendere un
passivo ricevere una continua interazione. Perché anche lui, come te,
faticherà, stenterà, magari in parte si rifiuterà. Come possono due esseri così
incompleti interagire così perfettamente? Questa mancanza, questa
incompletezza, questo essere in dubbio è in fondo il nostro destino, quello che
ci condiziona nell’assoggettarsi a questa rete sociale. È parte della nostra
libertà negata ai fini del contratto sociale ed è pertanto parte integrante
della nostra condizione. Mancanza e destino così intrinsecamente legati, chi
l’avrebbe mai detto?
Arriva
un certo momento della vita in cui lo realizzi, lo noti intorno a te, inizi a
raccontarti storie al riguardo e quindi adotti l’unico approccio che possa
darti una forma di libertà: te ne vai. Vedi questi fili che prima erano
invisibili, li tagli di netto, inizialmente è strano, fa male. Ti ritrovi su
una fredda strada ad osservare i passanti. Inizialmente li sdegni, ti fai beffa
del loro vacuo passare, sogghigni davanti ai loro fallimenti, alla loro
casualità, al loro essere parte di un enorme e futile formicaio. Poi inizi a
realizzare che quel dolore iniziale non era solamente psicologico, quei fili
erano in realtà dei tuoi nervi, sottili, che si diramavano verso gli altri,
verso il mondo, permettendoti di percepire la loro umanità e incompletezza,
consentendoti di accedere ad un piano diverso in cui le incertezze magicamente
si dissipano. Ti ritrovi svincolato dalla gente, perdi l’esperienza dello stare
al mondo, dimentichi come ci si senta, come quando un anziano cammina per il
parco e vede dei bambini andare su quelle giostre circolari che girano; li vede
girare e girare, ridere, impanicarsi per la velocità eccessiva, quindi rallentare.
Così io continuo a camminare, senza provare più molto. Questo è il cammino
intrapreso, questa la mia scelta, questa la mia attuale condizione. Mancanza,
destino, via.
La mia
vita è su una strada al di fuori della società, al di fuori della norma. Sono l’autoesiliato
che vive nell’osservare la propria patria. Questo imperfetto osservare mi rende
uno spettatore che riesce a vedere solo alcune scene e che quindi si eleva a
drammaturgo per dare loro una forma più consona, più regolare, più afferrabile
col pensiero. Ma in fondo, anche questa è una delle mie storie.
*Los in tedesco è un
suffisso che indica mancanza, in parole come “wortlos” (Wort = parola, +
-los = mancanza; “senza parole”) o “namenlos” (Name = nome, +
(-n) + -los = mancanza; “senza nome, anonimo”). Come sostantivo, das
Los, significa destino, ciò che ci tocca in sorte. Los è anche un
prefisso per verbi separabili, nel quale contesto significa generalmente “via”;
indica un partire, un allontanarsi, come nel caso del verbo “losgehen” (los-
= prefisso, + gehen = andare; “andare via, andarsene”). Interessante,
poi, che questo stesso verbo, andarsene, in tedesco voglia anche dire
cominciare. Jetzt geht’s los, ora si comincia.
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