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domenica 19 giugno 2016

I miei Autori: Franz Kafka

Franz Kafka è indubbiamente uno dei più importanti scrittori della letteratura mondiale. I suoi racconti e romanzi informano l’immaginario collettivo da diversi decenni, tanto da aver lasciato ai posteri non soltanto il termine “kafkiano”, che denota quell’atmosfera straniante e inquietante tipica dei suoi scritti, ma anche e soprattutto una serie di situazioni e scenari che esprimono appieno l’angoscia esistenziale tipica del Novecento.

Franz nasce a Praga, in Repubblica Ceca, il 3 luglio 1883 da una famiglia di origine ebraica. La sua prima lingua rimane però il tedesco, che coltiverà sia durante la sua formazione giuridica che durante la sua successiva – e breve – carriera lavorativa in campo assicurativo. Svolgendo questa professione a tempo pieno, si lamentava spesso di poter usufruire di poco tempo per scrivere, tanto da restare spesso sveglio di notte per scrivere ciò che fluiva naturalmente da lui. Il suo lavoro veniva considerato da Kafka stesso come un Brotberuf (letteralmente, “lavoro del/per il pane”), ossia come una professione atta al mantenimento economico di lui e della sua famiglia. A ciò si opponeva la sua scrittura quasi automatica, viscerale, che era al contempo la valvola di sfogo e il metro di misura della sua personalità.

Il conflittuale rapporto con il padre è forse una delle poche punte dell’iceberg conosciute alla quasi totalità delle persone. Basta addentrarsi in pochi racconti – e per giunta tra i più famosi – per ritrovare questo attrito padre-figlio traslato su una storia verosimile con nomi significativi che rimandano a quello dell’autore stesso. Tutto ciò emerge in maniera ancora più esplicita nella famosa Lettera al padre, che è ormai l’elemento di punta di questo aspetto di parte dell’opera di Kafka.

Quanto – e come – effettivamente questo malo rapporto abbia influito sulla sua visione del mondo è stato provato più e più volte da diversi critici: ricordo, per esempio, un articolo di uno psicanalista che si era interessato alla vita e all’opera di questo importante ed influente scrittore del primo Novecento europeo e aveva suggerito che il suo rapporto conflittuale con il padre fosse alla base del suo forte senso di colpa che trapela – e anzi prorompe – in gran parte delle sue opere, se non vogliamo considerare le lettere. Sosteneva, infatti, che il piccolo Kafka, da bambino, in una fase quindi estremamente caratterizzante e vulnerabile del suo sviluppo, avesse vissuto in un mondo in cui la punizione paterna avveniva non tanto per correggere un’azione sbagliata, quanto piuttosto secondo schemi imprevedibili e assurdi. Il risultato di ciò è pertanto una visione estremamente crudele del mondo, un caos malvagio che punisce secondo leggi indecifrabili.

Questa legge, d’altronde, compare più di una volta negli scritti di Kafka: è quella stessa legge che punisce tutti senza dare possibilità di appello, una legge secondo cui la condanna deriva direttamente dal sospetto e dall’accusa e secondo cui essa viene trascritta direttamente nella pelle dell’imputato ignaro della propria colpa, come nel racconto ‘In der Strafkolonie’ (in italiano, ‘Nella colonia penale’). Si tratta di una legge impenetrabile, come ci spiega ‘Vor dem Gesetz’ (in italiano, ‘Davanti alla legge’) e come viene poi ripreso da uno dei tre Romanfragmente (letteralmente, ‘frammenti di romanzi’) Der Prozess (in italiano, Il processo). Nel mondo di Kafka, insomma, l’accusa non è mai infondata e viene immediatamente seguita dalla condanna senza che l’imputato abbia possibilità di difendersi e far valere le proprie opinioni.

(Intervallo di simpatia)
Ciò che ne consegue è pertanto un annichilente senso di colpa che permea il protagonista checché egli abbia compiuto. Questo si nota, per esempio, in uno dei racconti più famosi di Kafka, ‘Das Urteil’, tradotto generalmente in italiano come ‘La sentenza’, dove il mondo del figlio viene capovolto in poche righe dalle parole irate di un padre malato e debole. Tuttavia, questo senso di colpa emerge anche in un’altra forma, specialmente nelle opere successive al 1916, anno di svolta secondo il critico e primo vero editor degli scritti kafkiani Malcolm Pasley. Dai temi della pena e della colpa si passa, secondo questo importante critico, al tema della responsabilità per un compito spirituale. Se questo sia vero o no è una questione di interpretazione, come succede spesso per un autore così enigmatico e insondabile come Kafka. Io personalmente ritengo vera quest’affermazione, pur riservando di fatto uno spazio piuttosto importante a quel senso di colpa che è così caratteristico di Franz e della sua Weltanschauung anche nella seconda sezione della sua opera. È indubbio, a mio avviso, che ci sia un senso spirituale, un desiderio di trascendere la realtà per portare a termine un compito non meramente terreno; tuttavia, se anche questo compito è presente, i protagonisti dei racconti e dei romanzi di Kafka si ritrovano impossibilitati ad adempiere a una tale agognata funzione che potrebbe elevarli al di sopra della gretta e crudele realtà nella quale sono inseriti. Si pensi, a titolo esemplificativo, al racconto ‘Der neue Advokat’ (‘Il nuovo avvocato’), dove a fare da protagonista è ciò che soleva essere il destriero di Alessandro Magno, che ora, persa una vera e propria guida, una spada unica che sappia indirizzare i suoi sforzi, ha deciso di dedicarsi alla giurisprudenza, allo studio dei libri di legge come mansione pratica e sicuramente meno insoddisfacente dell’inseguire un compito spirituale non meglio specificato. O, se aiuta, basti pensare a Das Schloß (Il castello), al cui protagonista, K., viene affidato il compito di agrimensore pur essendo di fatto impossibilitato ad accedere a quella grande e ominosa struttura che sovrasta la città. Il romanzo narra per l’appunto dei vani tentativi del protagonista di avvicinarsi al castello, tant’è vero che di fatto ogni capitolo è l’inizio di una nuova fallimentare impresa.

Questo sicuramente porterà alla mente il mito di Sisifo, condannato a far rotolare su per una pendenza una pietra solamente per vederla rotolare dall’altra parte per tutta l’eternità. Non è un caso che lo scrittore francese del secondo dopoguerra Albert Camus si sia interessato a Kafka e alla sua opera, oltre che a questo noto personaggio della mitologia greca. In un saggio dedicato all’autore de Il processo, Camus suggerisce argutamente: “le monde de Kafka est à la vérité un univers indicible où l'homme se donne le luxe torturant de pêcher dans une baignoire, sachant qu'il n'en sortira rien” (“il mondo di Kafka è in verità un universo indicibile in cui l’uomo si permette il torturante lusso di pescare in una vasca da bagno sapendo che non ne caverà nulla”). Ciò che ne consegue è un senso di colpa e frustrazione che si lega molto bene a quello che informa la prima parte dell’opera di Kafka – senso di colpa che diventa pertanto il fil rouge dell’opera kafkiana anche se vogliamo accettare la tesi di Pasley.

Una pagina di un manoscritto (kafka.org)
Questo critico, come ho accennato sopra, fu il primo vero editor dei manoscritti di Kafka. Infatti, essi vennero destinati alle fiamme dal loro stesso autore, ma l’amico Max Brod decise che c’era qualcosa di valore e, fortunatamente, non rispettò il desiderio finale di Franz e procedette quindi alla pubblicazione senza avere davvero le competenze per mettere insieme i diversi frammenti scritti da Kafka. Quest’ultimo, infatti, aveva un modo estremamente singolare di scrivere: tutto ciò che abbiamo di suo è contenuto in tre o quattro quaderni che passano fugacemente da un racconto ad un altro, da un frammento di un romanzo ad altri scritti che non vi hanno nulla a che fare. Come suggerito sopra, Kafka seguiva un processo di scrittura automatica per cui tutto ciò che scriveva era dettato da una forza che prorompeva da dentro di lui – e non è un caso, infatti, che vedesse il libro come “un’ascia per il mare gelato dentro di noi” („Ein Buch muss die Axt sein für das gefrorene Meer in uns”). Ne risulta quindi un insieme di scritti estremamente caotico: basti pensare che del romanzo Il processo son stati scritti per primi il capitolo introduttivo e quello finale, mentre gli altri si trovano in pagine successive, motivo per cui esso viene considerato un frammento di romanzo pur avendo un inizio e una fine.

Di fronte ad un processo creativo tanto inverosimile quanto ingarbugliato nel suo avere un ordine poco sistematico, è chiaro che solamente un professore di letteratura tedesca, nonché critico letterario di successo, come Malcolm Pasley, Fellow e Tutor del Magdalen College dell’Università di Oxford, poteva fare ordine laddove l’amico scrittore di Kafka Max Brod aveva fallito. Egli, infatti, riportò i manoscritti kafkiani in macchina dalla Svizzera, dove erano custoditi in un caveau di proprietà dei discendenti di Kafka, fino alle Bodleian Libraries di Oxford e lì inizio a studiarli per curarne finalmente un’edizione propriamente detta dei romanzi e dei racconti. È così che nascono quindi i primi veri studi dell’opera kafkiana e, specialmente, di quei testi, come Il processo, che dipendono totalmente da decisioni di editing di terzi.

È proprio attraverso questi manoscritti confusi, corretti e ricorretti, che una personalità disturbata e geniale come quella di Franz Kafka continua a vivere. Il suo additare una realtà caotica, insofferente ed enigmatica è un monito imperituro a tutto ciò che esula dal nostro quotidiano affaccendarci e che deve essere notato, se non osservato. Da qui il mio amore per la sua personalità e la sua scrittura, tanto ostica quanto geniale, e da qui il mio desiderio di divulgare ciò che lui rappresenta per me, per la letteratura e per l’umanità intera.

domenica 14 febbraio 2016

Σίσυφος (Sísyphos)

Ho deciso di dedicarmi ad uno dei miti che mi sono più cari, quello di Sisifo, condannato da Zeus a rotolare eternamente su per un monte un masso senza mai riuscirci e dovendo quindi ogni volta ritentare pur conoscendo il proprio destino. Ecco quindi un monologo sulla scia de 'Il fabbro', 'Alba', e 'Nuvole'.

Franz von Stuck, 'Sisifo' (1920)

Per tutta l’eternità spingo questo greve masso su per una salita che non si mitigherà mai. Una salita che mi guarderà indispettita ad ogni mio tentativo, che si farà beffa di me e del mio eterno movimento costante quanto futile. I muscoli si sforzano, si coordinano, cooperano affinché io possa nuovamente fallire. Ad ogni tentativo si fanno più forti, le dita dei piedi si stortano sempre più, si adattano in continuazione a ciò che viene loro richiesto, si piegano all’arbitrarietà di circostanze assurde. Le mie mani si fanno dure, callose, robuste; si appropriano della forma di questo masso, lo sfiorano, rivolgono la loro rinnovata energia verso un oggetto che è ormai diventato parte di loro. Lontani sono i giorni in cui esse, pavide, si avvicinavano a questo freddo pezzo di pietra per la prima volta. Lontana è la paura di non conoscerlo, di esplorare l’ignoto, l’alieno; altrettanto lontano è il timore di non potersi confrontare con esso. La vicinanza non mi atterrisce. Ho levigato questo masso ogni minuto della mia vita, l’ho fatto mio, mi sono appropriato delle sue fattezze, le ho in parte adattate a me. Questo masso è lo specchio del mio destino assurdo, dell’eterno ritorno di quelle stesse azioni futili, di quegli sforzi sovrumani, di quegli spazi soffocanti. Traggo calore da questo pezzo di pietra, mi impossesso dell’energia che posso derivarne. La mia esistenza è diventata una simbiosi con l’altro. Io lo levigo, lo rendo umano. Esso mi prepara ad un nuovo fallimento, ad un nuovo ripetersi.
In fondo, questo è il mio posto. Nella terra ai miei piedi vedo la concretizzazione delle mie erculee fatiche, conseguenze e al contempo cause della mia fallimentare impresa. Impronte diverse ma in fondo fin troppo simili, dominate da un caos che sa riproporsi anche nello scontare eternamente la stessa pena. Il sudore gronda dalla mia fronte e bagna il mio corpo come sangue che fuoriesce lento e costante da una ferita di color carminio. Sangue che abbandona il mio corpo a contatto con l’aspra concretezza di questa pietra e questa terra, che contribuisce a lubrificare questo eterno dolore, questa inscontabile condanna. Sì, questo è il mio posto, davanti a questa fredda terra, dietro a questo enorme masso che si fa beffa della mia forza fin troppo umana. Io sono la lotta stessa, la lotta contro un destino più grande di me, un destino che grava sulle mie spalle senza che io abbia la possibilità di scrollarmelo di dosso. Soffro, mi ribello, spingo con più forza, fallisco, soffro nuovamente. Eppure, potrei giurare di essere stato felice nel mio atto di ribellione. A questo mi aggrappo, questo mi incoraggia a tentare nuovamente, con rinnovato vigore, un’impresa intrinsecamente fallimentare. Per un attimo, una brezza piacevole rinfresca la mia fronte sudata e i miei muscoli tesi. Ma non c’è tempo per questo, no, bisogna continuare a spingere.


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Stavolta, ho pensato di lasciare spazio a qualche considerazione personale e letteraria. Infatti, la mia passione per Sisifo e il suo destino assurdo è nata principalmente scoprendo e, successivamente, leggendo un saggio del grande scrittore francese Albert Camus. Egli, infatti, spiega ne Il mito di Sisifo come la condanna di Sisifo sia intrinsecamente assurda: si ritrova infatti in un mondo senza moto reale, che continua a riproporsi nello stesso modo all’osservatore e soggetto che ne fa parte, ossia Sisifo stesso. Questo mondo assurdo è esattamente lo stesso in cui viviamo noi, secondo la Weltanschauung esistenzialista, un mondo scevro di qualsivoglia significato, privo di una vera e propria logica. Non è un caso che l’esistenzialismo sia nato come risposta al secondo dopoguerra e alla devastazione materiale e spirituale che ha portato con sé.

Tuttavia, l’esistenzialismo è lontano dall’essere una filosofia della crisi che si limita a prendere atto di essa senza proporre un messaggio positivo. Scrittori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Simone de Beauvoir, infatti, sono famosi per il loro impegno sociale e civile. Questo è sintomo del fatto che questa triade non circoscriva la propria opera ad una élite di intellettuali, bensì cerchi di rivolgersi ad un vasto pubblico, almeno attraverso la propria narrativa. L’obiettivo, chiaramente, è quello di divulgare, di arrivare alle persone, alla società – un obiettivo che condivido anch’io che scrivo questo blog, seppur in modo molto più modesto.

Alla luce di questo attivisimo sociale, è possibile quindi passare alla seconda parte dell’analisi di Camus. Egli, di fronte ad un mito tanto assurdo e apparentemente crudele, elabora una risposta positiva, suggerendo che Sisifo, in realtà, sia felice. “La lotta stessa verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”, dice Camus, estendendo quindi l’oscuro mondo del mito greco oltre i confini dell’assurdità e della crudeltà dell’esistenza fino a raggiungere il paradiso della felicità. Questo si concretizza quando un uomo, di fronte ad un destino più grande di lui, si ribella, lotta, si indigna, non accetta la propria sorte: in quel momento, in quell’atto, egli si erige a capitano della propria nave, si mette al timone e prende il controllo di un’esistenza priva di logica. E questa logica, non c’è bisogno di dirlo, viene a coincidere con quella che l’uomo decide di attribuirle: l’esistenza è assurda solo nella misura in cui l’uomo non le ascrive un proprio senso, un proprio significato; e nel fare ciò, egli si ribella ad un destino crudele e ad un mondo indifferente, assumendo pertanto una dimensione individuale improntata alla lotta.

Per scoprire qualcosa in più sull'esistenzialismo, invito alla lettura di questo vecchio post su questo blog.