sabato 2 aprile 2016

Otii Encomium

Albrecht Dürer, 'Melencolia I' (1514)


























Dopo aver passato un periodo piuttosto intenso in cui avevo sia un lavoro che un saggio da consegnare per l’università, ho deciso di scrivere di un tema a me caro: l’ozio. Per quanto possa sembrare banale, forse anche ridicolo, ho avuto modo di riflettere negli ultimi mesi su quanto sia fondamentale avere delle ore di ozio nella vita quotidiana.

Il termine in sé deriva dal latino otium che nasceva in contrapposizione al negotium (spesso al plurale negotia), ossia quell’insieme di attività che derivavano dalla partecipazione alla vita pubblica e/o socio-economica. L’ozio, al contrario, era il tempo libero, se vogliamo semplificare, ossia tutto quel tempo che l’individuo dedicava a qualsivoglia attività egli desiderasse svolgere.

Per approfondire questo aspetto, credo sia essenziale fare una premessa. Quando facciamo parte di una società civile, indossiamo una maschera giuridica che sostanzialmente limita la nostra persona ad una serie di diritti, di doveri, di responsabilità e di mansioni. Non è un caso che la parola “persona” in latino significasse originariamente “maschera”: il termine in sé infatti deriva dal verbo “per-sonare”, “suonare attraverso”, in riferimento alla fessura attraverso cui la voce deve passare quando un individuo, e nello specifico dell’etimo un attore teatrale, indossa una maschera. Pertanto, durante i nostri negotia, noi indossiamo una maschera a seconda di quale mansione svolgiamo all’interno della società di cui facciamo parte.

Il termine che si contrappone a “persona” è quello di individuo. Anche questo deriva dal latino, dove “in-dividuus” indica tutto ciò che è indivisibile e di conseguenza unico, speciale. Durante il nostro ozio siamo pertanto individui, unici e irripetibili, ognuno coi propri interessi e le proprie peculiarità. Il tempo libero rappresenta quindi quel lasso di tempo in cui l’individuo si toglie la propria maschera di persona per poter esplorare e migliorare le proprie capacità.

In una società capitalistica come quella in cui viviamo ogni giorno, veniamo costantemente spronati ad utilizzare il nostro tempo in modo produttivo. Ritengo, però, che non sempre si faccia attenzione al modo in cui viene utilizzato questo aggettivo. Nell’interesse del gretto capitale, infatti, ognuno dovrebbe portare la propria maschera di persona molto più a lungo di quanto necessario. Figure come quelle dell’imprenditore e del libero professionista, rese possibili tra le altre cose dal sistema socio-economico odierno, consentono e, di fatto, spingono gli individui nascosti dietro alle loro maschere a trascurare tutto ciò che invece a mio avviso andrebbe incoraggiato. Tutto questo, ovviamente, nel quadro di una logica prettamente economica dove più lavoro, più guadagno, più posso permettermi oggetti che mi garantiscano un certo status sociale.

Il mio interesse per questa tematica, già palesato, tra le altre cose, nel monologo intitolato ‘Il fabbro’, è cresciuto negli ultimi mesi come risultato della sopraccitata strana congiuntura storica tra studio e lavoro, congiuntura a me sconosciuta fino a poche settimane fa. Lavorare, anche solo part-time, per poi tornare a casa e dedicarsi ad attività più intellettuali come la stesura di un saggio può essere, non lo nego, molto soddisfacente, purché le due non vadano ad inficiarsi reciprocamente – e, naturalmente, purché le due siano fatte con un certo grado di soddisfazione che esuli dal semplice interesse materiale per il denaro. Fintanto che scrivo un saggio su un romanzo fenomenale di una scrittrice geniale posso ancora ricavarne qualcosa che vada oltre la concretezza della consegna dello stesso ai fini dei crediti universitari.

Tuttavia, osservando le persone intorno a me, noto come molti individui si debbano privare del proprio otium per inseguire degli obiettivi non sempre piacevoli e non sempre così dettati da un interesse genuino per la materia o la sostanza di cui si parla. Certo, nulla vieta loro, in qualità di persone, di dedicarsi ad attività noiose o poco gradite, anzi, è necessario occuparsi anche di queste di tanto in tanto – il lavoro dei sogni probabilmente nasconde delle insidie non sempre visibili di primo acchito. Quando il negotium però viene ad appropriarsi dell’otium, io credo sia necessario tornare alla radice del problema. I ritmi frenetici possono anche esserci, oggi più che mai, ma credo sia imprescindibile tenere sempre a mente che non siamo solo delle “personae”, ma anche e soprattutto degli “individui”.

L’ozio, checché se ne dica in questa società dominata dai negotia, merita di esistere in quanto dà forma e voce a tutto ciò che ci è più caro, prima fra tutti la nostra identità – parola che etimologicamente, ci tengo a ricordarlo, implica una molteplicità di cose “surrogabili l’una all’altra, senza che possa indursene mutamento di sorta” (etimo.it). Non siamo, quindi, ciò che produciamo, contrariamente a ciò che ci viene propinato quotidianamente; la nostra identità trascende le nostre maschere e funge da foce a estuario dove diverse acque si incontrano e si mescolano. Senza questa molteplicità, la nostra capacità di individui viene meno.

domenica 14 febbraio 2016

Σίσυφος (Sísyphos)

Ho deciso di dedicarmi ad uno dei miti che mi sono più cari, quello di Sisifo, condannato da Zeus a rotolare eternamente su per un monte un masso senza mai riuscirci e dovendo quindi ogni volta ritentare pur conoscendo il proprio destino. Ecco quindi un monologo sulla scia de 'Il fabbro', 'Alba', e 'Nuvole'.

Franz von Stuck, 'Sisifo' (1920)

Per tutta l’eternità spingo questo greve masso su per una salita che non si mitigherà mai. Una salita che mi guarderà indispettita ad ogni mio tentativo, che si farà beffa di me e del mio eterno movimento costante quanto futile. I muscoli si sforzano, si coordinano, cooperano affinché io possa nuovamente fallire. Ad ogni tentativo si fanno più forti, le dita dei piedi si stortano sempre più, si adattano in continuazione a ciò che viene loro richiesto, si piegano all’arbitrarietà di circostanze assurde. Le mie mani si fanno dure, callose, robuste; si appropriano della forma di questo masso, lo sfiorano, rivolgono la loro rinnovata energia verso un oggetto che è ormai diventato parte di loro. Lontani sono i giorni in cui esse, pavide, si avvicinavano a questo freddo pezzo di pietra per la prima volta. Lontana è la paura di non conoscerlo, di esplorare l’ignoto, l’alieno; altrettanto lontano è il timore di non potersi confrontare con esso. La vicinanza non mi atterrisce. Ho levigato questo masso ogni minuto della mia vita, l’ho fatto mio, mi sono appropriato delle sue fattezze, le ho in parte adattate a me. Questo masso è lo specchio del mio destino assurdo, dell’eterno ritorno di quelle stesse azioni futili, di quegli sforzi sovrumani, di quegli spazi soffocanti. Traggo calore da questo pezzo di pietra, mi impossesso dell’energia che posso derivarne. La mia esistenza è diventata una simbiosi con l’altro. Io lo levigo, lo rendo umano. Esso mi prepara ad un nuovo fallimento, ad un nuovo ripetersi.
In fondo, questo è il mio posto. Nella terra ai miei piedi vedo la concretizzazione delle mie erculee fatiche, conseguenze e al contempo cause della mia fallimentare impresa. Impronte diverse ma in fondo fin troppo simili, dominate da un caos che sa riproporsi anche nello scontare eternamente la stessa pena. Il sudore gronda dalla mia fronte e bagna il mio corpo come sangue che fuoriesce lento e costante da una ferita di color carminio. Sangue che abbandona il mio corpo a contatto con l’aspra concretezza di questa pietra e questa terra, che contribuisce a lubrificare questo eterno dolore, questa inscontabile condanna. Sì, questo è il mio posto, davanti a questa fredda terra, dietro a questo enorme masso che si fa beffa della mia forza fin troppo umana. Io sono la lotta stessa, la lotta contro un destino più grande di me, un destino che grava sulle mie spalle senza che io abbia la possibilità di scrollarmelo di dosso. Soffro, mi ribello, spingo con più forza, fallisco, soffro nuovamente. Eppure, potrei giurare di essere stato felice nel mio atto di ribellione. A questo mi aggrappo, questo mi incoraggia a tentare nuovamente, con rinnovato vigore, un’impresa intrinsecamente fallimentare. Per un attimo, una brezza piacevole rinfresca la mia fronte sudata e i miei muscoli tesi. Ma non c’è tempo per questo, no, bisogna continuare a spingere.


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Stavolta, ho pensato di lasciare spazio a qualche considerazione personale e letteraria. Infatti, la mia passione per Sisifo e il suo destino assurdo è nata principalmente scoprendo e, successivamente, leggendo un saggio del grande scrittore francese Albert Camus. Egli, infatti, spiega ne Il mito di Sisifo come la condanna di Sisifo sia intrinsecamente assurda: si ritrova infatti in un mondo senza moto reale, che continua a riproporsi nello stesso modo all’osservatore e soggetto che ne fa parte, ossia Sisifo stesso. Questo mondo assurdo è esattamente lo stesso in cui viviamo noi, secondo la Weltanschauung esistenzialista, un mondo scevro di qualsivoglia significato, privo di una vera e propria logica. Non è un caso che l’esistenzialismo sia nato come risposta al secondo dopoguerra e alla devastazione materiale e spirituale che ha portato con sé.

Tuttavia, l’esistenzialismo è lontano dall’essere una filosofia della crisi che si limita a prendere atto di essa senza proporre un messaggio positivo. Scrittori come Jean-Paul Sartre, Albert Camus e Simone de Beauvoir, infatti, sono famosi per il loro impegno sociale e civile. Questo è sintomo del fatto che questa triade non circoscriva la propria opera ad una élite di intellettuali, bensì cerchi di rivolgersi ad un vasto pubblico, almeno attraverso la propria narrativa. L’obiettivo, chiaramente, è quello di divulgare, di arrivare alle persone, alla società – un obiettivo che condivido anch’io che scrivo questo blog, seppur in modo molto più modesto.

Alla luce di questo attivisimo sociale, è possibile quindi passare alla seconda parte dell’analisi di Camus. Egli, di fronte ad un mito tanto assurdo e apparentemente crudele, elabora una risposta positiva, suggerendo che Sisifo, in realtà, sia felice. “La lotta stessa verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo”, dice Camus, estendendo quindi l’oscuro mondo del mito greco oltre i confini dell’assurdità e della crudeltà dell’esistenza fino a raggiungere il paradiso della felicità. Questo si concretizza quando un uomo, di fronte ad un destino più grande di lui, si ribella, lotta, si indigna, non accetta la propria sorte: in quel momento, in quell’atto, egli si erige a capitano della propria nave, si mette al timone e prende il controllo di un’esistenza priva di logica. E questa logica, non c’è bisogno di dirlo, viene a coincidere con quella che l’uomo decide di attribuirle: l’esistenza è assurda solo nella misura in cui l’uomo non le ascrive un proprio senso, un proprio significato; e nel fare ciò, egli si ribella ad un destino crudele e ad un mondo indifferente, assumendo pertanto una dimensione individuale improntata alla lotta.

Per scoprire qualcosa in più sull'esistenzialismo, invito alla lettura di questo vecchio post su questo blog.

domenica 10 gennaio 2016

Lo spettro del Femminismo

Gustav Klimt, 'Giuditta I' (1901)

























Ein Gespenst geht um in Europa – das Gespenst des Feminismus.

Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro del Femminismo.

Ignoto ai più, ripudiato da molti, tradito da troppi. Trascina le sue grevi catene qua e là, in tanti lo vedono, ma ne sono spaventati.

E se la donna potesse non essere madre? E se non dovesse necessariamente essere intrappolata dalla sua funzione biologica? E se trovasse realizzazione nella carriera? E se decidesse di lavorare, portare a casa il pane, portare dei pantaloni? No no, allontana questi funesti pensieri, spettro maledetto!
La donna è un’emanazione della maternità, deve accudire i figli, dev’essere l’angelo della casa. Che lavori pure, se le è dato, ma che accetti con rassegnazione soprusi e discriminazione. Uno stipendio più basso del vero lavoratore, l’uomo, quell’instancabile massa di forza erculea, che certo merita di più, abbisogna più denaro – è innegabile. Così vuole Madre Natura.
Madre Natura, questo confuso garbuglio di pensieri che vengono propagandati postumi, quando lo stato di natura è morto e sepolto. Lo stato di cultura se ne appropria, recupera il corpo nel suo giaciglio mal disposto, solleva il putrido cadavere e lo esibisce davanti agli occhi sbigottiti di milioni di persone. “È giusto, è giusto!” grida la folla aizzata, “Madre Natura ci vuole confinati ai nostri ruoli, vuole la donna madre, la donna angelo della casa, che accudisce i propri figli, che sacrifichi le soddisfazioni personali per cercarle nella propria prole! Madre Natura vuole l’uomo instancabile lavoratore, maschio alpha, conquistatore di donne, collezionatore di trofei di carne ed ossa!” C’è anche chi nomina il nome di Dio invano, senza accorgersi del processo di proiezione antropologica che ne sta alla base.
Il cadavere languisce davanti a tutti, marcio e imputridito. Non ci si preoccupa di scomodarlo in caso d’evenienza. A volte viene anche infilzato ed impalato, ad eterno ricordo di questi ruoli che avrebbe definitivamente stabilito in un mondo primordiale che nessuno può ignorare. Solo pochi notano che, in fondo, si tratta di un cadavere strappato alla sua tomba; che impalarlo è di fatto un atto di forza bruta, di violenza, di non accettazione di un mondo diverso; che ‘famiglia tradizionale’ e ‘teoria del gender’ sono termini che questa Madre Natura non ha mai conosciuto. Ma soprattutto, in pochi si accorgono della sofferenza di questo cadavere che non conoscerà mai l’eterno riposo, la pace, o perlomeno una tregua. Intossicato dai veleni umani, dal tirannico Capitalismo che non vede in essa una madre, quanto piuttosto una vittima da sacrificare all’altare del dio Capitale. E questa Natura, strappatole comodamente il ruolo di Madre, diviene schiava di un sistema che in quello stato di natura non ha mai trovato posto. Questa unica vera madre viene sacrificata con determinazione, ma mai sia che le donne possano conoscere una felicità che non sia quella famigliare di crescere dei figli ed occuparsi di una casa.
Lo spettro si aggira nella folla, tocca qualcuno, lo rende partecipe dell’inenarrabile sofferenza del nascere con due X stampate in ogni cellula. Sofferenza in fondo evidente, che si manifesta in copiose perdite di sangue e in altrettanto copiose perdite di denaro per ovviare al problema. Sofferenza in fondo anche mal celata, che viene perpetrata dal genere maschile ogniqualvolta ritenga opportuno fischiare, sbraitare, allungare le mani su ciò che di fatto non è un oggetto alla mercé dell’uomo. Sofferenza in fondo anche nascosta nella lotta quotidiana di ogni donna che non si senta madre, che voglia lavorare, cercare soddisfazioni personali senza per questo dover scendere a compromessi con un mondo dominato da uomini.
Qualcuno, nella folla, realizza tutto ciò con occhi vitrei e viso pallido, abbassa lo sguardo confuso e ben presto abbandona quella macabra declamazione su e contro Madre Natura. L’entusiasmo si smorza, la candela della devozione viene spenta dal raziocinio del progresso, la folla si sfoltisce. I pochi rimasti piantano radici lì, continuano a sbraitare, fermi nella convinzione che questo cadavere abbia leggi da dettarci. Allora creano di propria mano una teoria del gender, confusa, decadente, dannata. Ora hanno la loro crociata, il loro nemico, questo enorme mulino a vento fatto di cartapesta e qualche desiderio represso. Si elevano a rango di sentinelle, leggono confezioni di shampoo e riviste di gossip, condannano il declino della civiltà. Lungi dall’uomo e dalla donna elaborare una dimensione personale in cui si sentano a casa. Il mondo è un posto freddo, ognuno al proprio posto, con i propri ruoli e le proprie battute. Non deviamo dalla rotta prestabilita, non c’è spazio per Ulisse qui.

giovedì 17 dicembre 2015

Sulla tolleranza

Sulla scia della foto che sta circolando in questi ultimi giorni che mostra l’intollerante cartello di un paese nel bresciano, ho pensato di buttare giù qualche riga per ribattere a tutti coloro i quali si sentano in dovere di sostenere questa battaglia contro i mulini a vento iniziata ormai da mesi.



È indubbio che gli attentati a Parigi abbiano toccato e ferito noi europei molto più profondamente di quanto non avessero fatto altri atti terroristici nel Medio Oriente. Non mi soffermerò troppo su questo aspetto, poiché in parte credo si possa giustificare in qualche modo questa sensazione – e sottolineo sensazione, perché se fosse un pensiero vero e proprio avrei più difficoltà a considerarlo accettabile – di ansia e panico che domina la scena politica europea e la vita quotidiana di ogni europeo da ormai un mese a questa parte. D’altronde, e spero mi sia concesso il parallelismo senza suonare amorale e poco empatico, non credo si possa biasimare qualcuno se questi apprende dell’esplosione di una bomba dietro la propria casa quando normalmente le bombe non sa nemmeno che faccia abbiano. È senza dubbio anche merito dei mass media, che ci tengono aggiornati, da una parte, su ciò che viene comodo a loro, e dall’altra, su ciò che ci è più vicino. Insomma, qualcuno potrà storcere il naso leggendo della distruzione di un Tempio facente parte del patrimonio mondiale dell’UNESCO a Palmira, in Siria, ma temo sia irrazionalmente giustificabile che la faccia della stessa persona assumerà un’espressione sgomenta se l’edificio in questione è il Colosseo a Roma. Come si suol dire, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Dal punto di vista razionale chiaramente questo discorso non regge e sono il primo a dire che la distruzione di un edificio antico e storicamente significativo sia un crimine contro l’umanità, come ha giustamente dichiarato l’UNESCO.

Ciò che d’altra parte trovo davvero esecrabile da molti punti di vista è il fatto che ci siano determinati soggetti che non condannano un’azione tanto ignobile quanto quella di chi ha avuto la geniale idea di ribadire che il proprio paese sia “a cultura Occidentale e di profonda tradizione Cristiana”, specificando sotto che “chi non intende rispettare la cultura e le tradizioni locali è invitato ad andarsene”. Ora, posso capire che questi attentati abbiano dato il via ad un’ondata di terrore e panico generale che continua ad imperversare nella vita quotidiana di molti europei, però non vedo come un cartello del genere possa dare una risposta sensata e razionale alla brutalità e alla barbarie che lo Stato Islamico sta mostrando e seminando qui e in quel Medio Oriente tanto lontano dai nostri occhi occidentali. Non dico che non fosse quasi scontata una chiusura nei confronti degli islamici, d’altronde di persone poco raziocinanti al mondo ce ne sono eccome, però insomma, internet è un potente strumento di informazione e di analisi se usato correttamente. Il problema a questo punto immagino sia che la gente ne faccia un uso alquanto maldestro ed insano.

Il Tempio di Bel a Palmira, in Siria

Questo mi porta a ricordare che non esistono al mondo religioni vere e clinicamente testate, poiché si basano tutte sulla fede, sulla necessità da parte dell’uomo di credere in qualcosa, che sia in un dio cristiano, nelle antiche divinità egizie o in Allah poco importa. Il mio sdegno e la mia condanna trovano conferma nel fatto che tutto ciò sia stato illustrato dalla civiltà occidentale – e sottolineo occidentale, giusto perché non appena si pronuncia la parola “Oriente” i cervelli si staccano disinteressati e anzi piuttosto infastiditi – secoli fa, in quella famosa “età della ragione” che si studia a scuola e che si presenta con il nome di Illuminismo. Tanto per offrire uno spunto meno trito – ma forse altrettanto banale, per chi conosce la letteratura tedesca – rispetto a Voltaire e compagni, ripropongo qui la famosa “Ringparabel” (letteralmente, “parabola dell’anello”) contenuta in un testo caro ai germanisti dal titolo Nathan der Weise (in italiano, Nathan il saggio) dell’illustre Gotthold Ephraim Lessing. La parabola racconta della tradizione per la quale il padre di una famiglia regala al figlio che ama di più un prezioso anello in possesso della stessa da generazioni. Ad un certo punto, il padre in questione è costretto a scegliere tra i suoi tre figli, che ama in egual misura. Alterando la tradizione in modo esemplare, il padre decide di far produrre altri anelli identici all’originale e di dare ad ognuno dei tre figli uno di questi, assicurando ad oguno di essi che il suo sia quello autentico. Una volta che il padre muore, i tre figli si ritrovano a discutere riguardo a chi possieda l’originale, ma le copie sono troppo simili per essere riconosciute, anche davanti ad una corte di giustizia.

Se si considera il contesto nel quale è inserita questa parabola, è possibile avere un indizio fondamentale riguardo a come dovrebbe essere interpretata. Infatti, essa viene proposta a Saladin, il Sultano d’Egitto, dal personaggio eponimo, Nathan, un tollerante negoziante ebreo, in risposta alla domanda del primo riguardo a quale delle tre religioni monoteistiche sia quella autentica. L’anello originale è indiscernibile dalle copie – sempre che non siano tutte copie – pertanto l’invito della corte, alla fine della parabola, è esattamente quello di non guardare all’autenticità dell’anello, poiché non c’è alcun modo di decretarla in modo oggettivo. Ciò che ne risulta è quindi un invito alla tolleranza, poiché nessuna delle tre religioni può determinare in modo esatto la veridicità delle proprie affermazioni né si basa tantomeno su un mondo fattuale e razionale.

Ciò si ricollega, oltretutto, ad un video realizzato da dei ragazzi olandesi che è circolato non troppo tempo fa su social network e affini. In questo interessantissimo esperimento sociale, infatti, i suddetti hanno letto ad alta voce a dei passanti qualsiasi dei passaggi della Bibbia spacciandoli per sentenze del Corano e chiedendo poi a questi cosa ne pensassero. Ovviamente la condanna è stata prontamente sguinzagliata da tutti, non senza un certo grado di moralità cristiana, finché gli autori del video non hanno svelato che si trattava in realtà della Bibbia e non del Corano. Le reazioni sono state piuttosto sincere e umili, il che onestamente mi ha rallegrato – in fondo, chi pensa di conoscere un testo sacro così bene da distinguerlo da un altro? Ognuno di essi racconta una storia scritta migliaia di anni fa che era anche e soprattutto il prodotto di un universo culturale completamente diverso da quello che viviamo nel 2015. Ogni religione, in misure diverse, contiene parole di conforto, di amore, d’odio e di disprezzo, e proprio per questo ritengo – e Lessing con me – che nessuno di noi sia nella posizione di condannare una religione piuttosto che un’altra.

Alla luce di quanto illustrato da questa parabola, se da un lato la prima parte del cartello di Pontoglio sopraccitato aiuta i poveri paesani a ritrovare la strada di casa a mo’ di freccia “VOI SIETE QUI” sulle mappe dei centri commerciali (“sì, sei a casa, tranquillo, sei in Occidente e sei in un territorio cristiano”), d’altro canto non vedo come il messaggio di intolleranza sottostante possa elucidare la posizione del malcapitato. O forse, per gli abitanti di Pontoglio, questo messaggio di intolleranza sarà come una sonora pacca sulla spalla seguita da “pota bentornato a baita, la polenta è in tavola”; ciò che mi sconforta è che si debba e si possa ricorrere a tali colpi bassi per dichiarare la superiorità di un credo sugli altri, dimenticando di fatto la laicità dello Stato tanto cara ai giuristi.

Nella mia modesta opinione di italiano non aderente ad un credo ben preciso e stabilito, la religione, come tante altre cose, è una scelta personale e privata che deriva dalle diverse necessità di differenti persone. Non mi ritengo superiore a nessuno dei credenti solo perché decido di non far parte del mondo religioso né tantomeno sento la necessità di dichiarare ciò su un cartello all’entrata del mio paese. L’obbligo di rispettare la mia visione occidentale e cristiana – ammettendo che sia tale – tange i turisti, i visitatori e i miei vicini solamente nella misura in cui essi rispettino le leggi della mia terra: il mio credo non può e non deve farne parte.

Peraltro, mi chiedo che ne sarebbe di Davide se cercasse di sconfiggere Golia a mani nude...

mercoledì 3 giugno 2015

Nuvole


Pubblico qui il terzo monologo, sulla scia de Il fabbro e Alba, nella speranza che possa risultare interessante a qualcuno. Come sempre rimango aperto a critiche e pareri diversi dal mio.







Disteso in un prato osservo il percorso delle nuvole, le loro traiettorie inenarrabili, le guardo fare il loro inarrestabile corso. Il vento le sospinge un po’ più in là, gradualmente, pian piano, sempre più lontane. Le vedo trasformarsi lentamente, modellate da una forza che non sanno descrivere. Vengono separate, lacerate, levigate, gonfiate, smontate. Provo a contarle, una, due, tre, quattro... Sento di dovermi fermare qui. Sono molte di più di quante la mente non possa abbracciarne. Si susseguono senza tregua, occupano spazi indescrivibili, insondabili. Sembrano spumose, rigonfie, ma ho l’impressione che siano impalpabili al tatto. Che stranezza. Penso di conoscerle, credo di essermi impossessato del loro segreto, della loro natura, delle loro qualità intrinseche, ma non ho mai avuto modo di accarezzarle, di toccarle, di domarle. Non ne ho mai sentito l’odore, mai ne sentirò il sapore. Non so se si possano respirare, digerire, calpestare. Eppure le posso osservare e tramite questo unico senso credo di averle comprese, di averle rese parte della mia conoscenza del mondo. Sento di poterle adorare, di poterle amare come un’amante la notte del giovedì quando tua moglie è fuori casa: segretamente, intensamente, immersi in un mondo dove vigono altre regole, dove esistono solo due entità, tu e lei. La vergogna è qualcosa che nasce solo il giorno dopo, al risveglio, pian piano si inserisce nella tua giornata, inizia a punzecchiarti mentre giaci nudo nel letto, prima le dita dei piedi, poi le cosce, l’addome, il petto, il viso; a colazione è seduta con te al tavolo, senti il suo sguardo pesare su di te, ma non trovi il coraggio di ricambiare quello sguardo intenso, quell’implicito tono declamatorio che si rifà a grandi ideali di perfezione, di amore vero, di sentimenti genuini che tu non hai mai saputo cogliere, o che forse la vita non ti ha mai regalato; a pranzo, lei torna, la vergogna si stampa sulle sue labbra quando la baci e la accogli in casa prima di tornare a lavoro; come un alone, ti accompagna fino a cena, un alone scuro, violaceo, funereo; la sera rincasi, obnubilato da una presenza che non è di questo mondo, ti cambi, ti fai una doccia, sperando di levartela di dosso; la vedi scendere giù per lo scarico, pensi di essertene liberato, ma era solo sporcizia.
Il sole torna a splendere, si riflette sul mio viso confuso, contratto in mille pensieri infelici. Ricordi di una notte altrettanto miserabile. La passione di qualche manciata di minuti, la voluttà ti attanaglia, e tu la espelli in un pezzo di lattice. Scatenarsi, ansimare, riposare esausti l’uno accanto all’altra. Imprimere il proprio sudore, il proprio odore nelle lenzuola: questo sarà ciò che ne rimarrà l’indomani, una presenza nebulosa, vaga, che porta alla mente ricordi confusi, ingarbugliati, impossibili da rievocare nel dettaglio. Ricordi i suoi movimenti sopra di te, la ciocca di capelli che le hai spostato dal viso, le sue mani sul tuo petto, poco altro. Ad accompagnarti fuori dalla porta è la vergogna del tradimento, della tua gretta esistenza spoglia di vesti illibate, candide, profumate. Tutto ciò che rimane è l’odore di un processo innaturale, artificioso, forzato, privo di senso. Ti rifugi nel tutto, nelle nuvole che accarezzano dolcemente il cielo mentre si dirigono verso mete che non potrai mai ammirare. Loro fugaci, leggere, eleganti; tu ancorato a questa esistenza terrena, a questo suolo bagnato di lacrime, macchiato di sangue, calpestato da milioni di fantasmi che, come te, girovagano immersi nei loro eterni, insensati scopi.
E se queste nuvole fossero destinate a rimanere? Se il loro moto fosse apparente, se il sole non riuscisse mai più a penetrare questa coltre grigia e melancolica? O se ci riuscisse solamente sporadicamente, come se un qualcuno, un qualcosa di più grande volesse graziarmi, così, per tenermi vivo e vegeto? Se questo cielo nuvoloso, grigio, fosse la regola e non l’eccezione? Se i pensieri e i ricordi fossero destinati a bussare alla porta costantemente, vigili, imperituri, attendendo la mia più piccola debolezza? Se io fossi in un rifugio in montagna da solo, attendendo qualcuno, ma alla porta si presentasse solo un lupo solitario? Se questo iniziasse a graffiare la porta, a ululare, a digrignare i denti quando osassi scaricare il mio sguardo spaventato su di lui? Se quel qualcuno non arrivasse mai e io fossi destinato a rimanere bloccato in quella casa, isolato dal mondo da una bestia feroce pronta a divorarmi non appena io decidessi di cedere al suo canto intossicante? Ci sarebbe indubbiamente un certo piacere in tutto ciò. Quella sorta di voluttà provocata dal bel canto delle sirene, che ti ammaliano e ti invitano all’autodistruzione. Forse è questo l’unico piacere che saprei concedermi, quello del dolore, dell’atrocità, dell’annientamento. Niente amore, niente sesso, nessun legame che sappia dare una svolta alla mia esistenza. Nessun porto sicuro. Sono al contempo la tempesta e il capitano della nave destinata a smantellarsi sugli scogli. Che le sirene cantino o meno poco importa. Non ho una rotta, nessuno strumento di navigazione mi sa davvero aiutare a trovare la strada, nessun tipo di presenza umana o divina mi assiste. Ci siamo solo io e questa tempesta che sono i miei pensieri, che si susseguono l’un l’altro senza posa, proprio come queste candide nuvole che soffocano il sole e la sua luce. Scorrono una dopo l’altra, senza sosta, tanto leggiadre quanto letali. Si tratta solo di una parvenza di movimento, di fatto non fanno altro che perpetuare il soffocamento del sole. Qualche volta ricompare, prende fiato esausto, quasi esanime, per poi tornare nell’ombra a cui appartiene.
Io sono il sole destinato a non spegnersi mai, soffocato dall’eterno susseguirsi di nuvole dalla sostanza impalpabile. Questa è la mia condizione, questa la mia condanna.

domenica 31 maggio 2015

Alba


Seguendo le orme di un mio pezzo precedente intitolato Il fabbro, ho deciso di cimentarmi nella scrittura di monologhi interiori brevi e sostanzialmente monotematici per affrontare alcuni temi che mi stanno cari. Questo è il secondo pezzo che risulta da questo tentativo. Come sempre rimango aperto a pareri diversi dal mio, sentitevi liberi di commentare pubblicamente o in privato.



La pioggia batte contro al vetro di questo luogo asettico e immacolato, eppure così macchiato di piccole tragedie quotidiane da emanare un odore nauseabondo di lacrime e dolore. Osservo il mondo fuori, attraverso la finestra, proprio come la protagonista di una tragedia domestica che sogni di essere altrove, immersa nell’esoticità di posti che mai furono e mai saranno. Intravedo le prime luci del giorno avvicinarsi, all’orizzonte il sole ancora si fa attendere, ma la natura ha già organizzato un comitato d’accoglienza degno di nota. Il canto del mattino non tarda ad inserirsi lentamente nel cambiamento che la natura subisce da notte a giorno, da oscurità a luce, da silenzio a rumore. Le mie dita, intrecciate in un fazzoletto, mostrano i primi segni di una stanchezza che vorrei non mi appartenesse. Tremano, fanno dei periodici scatti repentini che mi riportano costantemente alle lacrime e alla sofferenza di questa realtà. Mi volto verso il letto dove giace l’uomo che amai per tutta la vita. Lo vedo inerte, impassibile; lo vedo vegetare in uno stato che ancora non riesco ad accettare. Deglutisco, abbasso lo sguardo. Stringo il fazzoletto, ne noto nuovamente il tessuto pregiato, quella stessa seta che negli anni ha accolto la mia sofferenza, che mi ha cullata e mi ha fatta scivolare fuori dai momenti più bui. Qui ritrovo le mie lacrime, le parti più sofferenti del mio corpo, il sudore di un parto, il sangue che ho strofinato via dalle ferite dell’infanzia di nostro figlio. Ripercorro i passi che mi hanno portata in questa stanza d’ospedale e mi chiedo cosa la vita volesse davvero da me. Mi chiedo se ogni piccolo movimento, ogni parte, ogni minimo gesto fosse necessario ed inevitabile. Arrancare, spostarsi, ritornare sui propri passi, camminare secondo traiettorie prestabilite, descrivere un cerchio con il proprio andazzo claudicante. Che razza di percorso è la vita. Scuoto la testa, le mie labbra si raggrinziscono in un sorriso sofferente, sento il dolore affluire agli angoli dei miei occhi. Osservo le mie mani consunte, accarezzo il mio fazzoletto color panna, poi ritrovo la forza per guardare nuovamente quel corpo freddo come roccia che langue infermo in uno scomodo letto d’ospedale. Tutto questo volge al termine. Non si tratta più di osservare l’uomo che ho amato per un’umana eternità, no, questo ormai si riduce ad essere un macabro spettacolo della natura. E io sono costretta ad assistervi come spettatrice impassibile, non batto ciglio di fronte a tanta crudeltà, mi rifugio anzi nelle sofferenze del mio passato, cerco di visualizzare un futuro ottenebrato da questo evento assassino. Rabbia, sofferenza, incapacità di affrontare questo strazio. È questa la mia tragedia? Quella che porterò a malincuore per il resto della mia esistenza, quella grande croce rossa, quel bracciale funereo che cingerà il mio braccio per sempre? È questo l’inevitabile destino verso cui sto correndo?
Mi lascio distrarre dal più piccolo rumore, la mia inesausta speranza mi tiene attenta, vigile, in attesa del più piccolo segnale. A volte è un respiro più affannato, altre volte si tratta di un movimento quasi impercettibile delle dita. In ogni caso, nulla si muove, tutto è fuori dal tempo, stanotte. Tutto tranne questa crudele natura che ci spia dalla finestra, che sgomita ricordandoci che c’è sempre qualcosa di più grande che si muove anche se noi siamo ancorati in un deserto atemporale. Quanta ironia c’è nel mondo, nell’inesorabile correre del tempo, nell’eterno ripetersi delle stagioni, nella nostra perpetua lotta per trascinare dietro di noi cose che non ci possono più appartenere. Ci opponiamo alla natura, cerchiamo di divincolarcene, di strapparle qualcosa che ha saputo smuovere in noi un sentimento, un affetto, una passione. In un primo momento ci riusciamo, i nostri avidi artigli infossati nella carne così fresca, sanguinea, del colore del migliore dei tramonti. Presto o tardi, ci accorgeremo che siamo aggrappati ad un pezzo di carne imputridita, dall’odore nauseabondo, troveremo dei vermi ad ogni morso, introdurremo del veleno nel nostro organismo, lo masticheremo in parte soddisfatti, in parte avviliti, lo assimileremo, impareremo a digerirlo, a volte persino ad apprezzarlo. E poi sarà troppo tardi, ci rassegneremo. Guarderemo il nostro riflesso nello specchio abbattuti, vedremo un viso emaciato, logoro, incapace di subire il lento protrarsi della nostra sofferenza. Vorremo piangere, esternare il nostro dolore, ciò che ci lacera l’anima, ma ci accorgeremo, finalmente, che ad ogni alba ci siamo riscoperti non più forti, ma più adatti al nostro ruolo di maschere di sofferenza; ogni giorno, abbiamo migliorato la nostra capacità, abbiamo levigato i nostri spigoli per riuscire a stare in un cerchio perfetto, per riuscire a fare ciò che abbiamo trascinato con noi negli ultimi anni. Cosa siamo diventati? Intossicati dalle nostre faccende quotidiane, dimentichi del mondo, dello schema più grande nel quale siamo inseriti, puramente interessati al nostro gretto egoismo, alle nostre cose, ai nostri affetti, alle estensioni della nostra personalità, abbiamo proseguito nella nostra futile lotta contro un destino più grande di noi. Ci siamo creduti superiori al mondo, alla morte, persino alla vita. Abbiamo ricreato vita, l’abbiamo introdotta nella nostra misera esistenza quotidiana, ci siamo ostinati a portarci appresso tutto ciò che ci era caro. Non abbiamo mai imparato a dire addio, non ci siamo mai abituati al commiato. Ma il conto arriva sempre. Io sono qua a pagarlo, davanti alla beffa che il mondo si fa di me e della mia minuscola presenza, della mia lacrimosa tragedia da quattro soldi. In un attimo, la macchina si spegne, mio marito con lei. L’ospedale si ottenebra davanti ad un’alba che non è mai stata più lucente, un sole scintillante compare all’orizzonte, forte, ruggente, impavido. Nell’umanità impazza il caos.
Non trovo nemmeno la forza di alzarmi da questa sedia. Le lacrime si annidano agli angoli dei miei occhi lucidi, la mia faccia si comprime in una smorfia sofferente, ma pacata, quasi serena. Sento la mia nuora chiamarmi, da fuori: “Alba!”.
Già, proprio così. Quanta ironia.
Quanta ironia.