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mercoledì 31 agosto 2016

Risveglio

Dopo un po' di tempo, son tornato con un racconto breve sul modello de 'Il fabbro', 'Alba' e 'Nuvole' (e, almeno in parte, 'Σίσυφος (Sísyphos)'). Come sempre, commenti e feedback di qualsiasi tipo sono più che apprezzati.





Risvegliarsi da sogni imbarazzanti, ritrovarsi in un letto, da soli, senza via di fuga. Sentirsi gli occhi gonfi di lacrime non versate. Fare colazione con la nausea accanto a te che ti accarezza, che ti dice che hai proprio una faccia da schifo stamattina. Continua a farti discorsi, a chiederti che fine abbia fatto il tuo sonno di bellezza, dove sia finito il tuo bel viso truccato e curato della serata precedente, dove tu abbia lasciato la voglia di vivere. Non senza ironia. “Ti sei tolta il trucco per portare questa miserabile maschera di sofferenza? Suvvia, sei giovane, la vita è bella alla tua età”. Ora inizia a sembrare tua madre, la tua vicina di casa, una amica di tua zia. Ti propina luoghi comuni sulla felicità. “Tu non vedi ciò che vedo io” le rispondo, pentendomene immediatamente, cogliendo una sfacciataggine bambinesca che non mi rappresenta. “Sei solo una ragazzina viziata” riprende lei, “Non apprezzi un briciolo della fortuna che hai! Ci sono ragazze che soffrono per il loro fisico, per il loro aspetto, per come le vedono gli altri, e tu guardati! Quelle gambe, quel viso perfettamente calibrato e modellato alla perfezione. Non hai proprio nulla di cui lamentarti”. Penso a quell’uccellino nella gabbia di cui parlava Van Gogh in una lettera al fratello, a quanto le nostre vite viste da fuori possano sembrare tutto tranne quello che sono realmente. Da fuori tutto ciò che si vede è una facciata vuota, su cui gli altri proiettano una felicità che in realtà non ci appartiene. Penso al paragone con il camino: dentro, un fuoco scoppiettante, fuori, del fumo che esce dal camino. Da fuori, un uccellino in gabbia con tutto ciò che potrebbe desiderare nella sua limitata visione della vita: cibo, ammirazione, magari qualche carezza, tanto affetto. Da dentro, un uccellino in gabbia a cui tocca costantemente vedere la grande migrazione dei suoi simili passare davanti alla finestra, istinti che è costretto a reprimere, ignorando la primavera che intona un canto altisonante.
In questi giorni risvegliarsi è come finire la morfina in corpo. Il cervello si attiva, gli occhi si aprono, il dolore torna a fluire. Come se fosse quest’ultimo a dettare quando sono sveglia e quando invece dormo, cullata da incubi che sogghignano incessantemente. Perlomeno quando sogno sono in un altro mondo, qualcosa che mi appartiene, nel bene e nel male. Quando mi ritrovo, come ogni giorno, tra queste candide lenzuola profumate, subentra una sensazione di essere nel posto sbagliato, il disagio e lo sconforto irrompono nella serenità che solo la notte sa portarmi. Scosto le coperte, mi alzo senza slancio, mi ritrovo seduta su un lato del letto, quello di fronte allo specchio. Di nuovo quella faccia, quella maschera di sofferenza che indosso costantemente in periodi come questo. Di nuovo quel corpo da pubblicità su riviste giovanili, di nuovo la nausea di essere me stessa e non quell’immagine di me che gli altri si divertono tanto a vendere. Un singhiozzo rompe il mio viso equilibrato come a ribadire l’importanza capitale che questa malattia dello spirito ha ormai assunto nella mia vita.
Mi sento addosso una stanchezza esistenziale impareggiata da ore passate a camminare su una passerella con addosso i vestiti più assurdi, con le espressioni più seducenti e felici che il mio viso mai conoscerà, ore passate ad esibire non soltanto un bel corpo, ma anche e soprattutto una presunta felicità sociale e lavorativa che non mi appartiene in alcun modo. Giorno dopo giorno mi ritiro in questa mia tana per abbeverare i miei demoni con il mio sangue. Questi si contorcono ed emettono grugniti mentre il mio sangue scorre inesorabilmente dalle mie vene, si avvicinano senza curarsi della mia incolumità, si nutrono di me e dei miei venticinque anni. Calde lacrime si annidano negli angoli dei miei occhi, mi impediscono di vedere ciò che succede e, almeno in questo, trovo conforto.
Come sono arrivata fin qui? Chi mi ha trascinato in questa arena di sconforti e fatiche? Dove trovo l’uscita verso un mondo confortante? Esiste un modo per deviare da questa rotta che mi porta in lande desolate, verso un’arsura che le mie forze non riescono in alcun modo a temperare? Come sacrificai la mia vita sull’altare dell’equilibrio e dell’armonia estetici? Come porre rimedio ad un azzardo? Domande che mi assillano, che pongono la mia mente sotto assedio ormai da anni. I viveri iniziano a scarseggiare e questo assedio non pare voler terminare.
Come ogni mattina, mi preparo. Ricopro il mio corpo di vestiti costosi, di profumi intensi, di accessori sfavillanti per celare un po’ più in profondità questa miseria esistenziale. Esco di casa e noto l’inutilità delle nostre apparenze, la necessità di esibire una serenità che spesso non ci appartiene, il bisogno viscerale di avere rapporti umani, di scambiare parole, per quanto vacue, con individui di cui temiamo il giudizio, senza diritto di deroga. Vedo i binari che mi conducono verso le solite consuetudini, le stesse marmoree leggi che giorno dopo giorno mi fanno affondare nella disperazione. Deragliare dovrebbe essere un diritto di tutti. Scostarsi per un attimo da questo cammino di strazi per poter vedere altro, per cercare qualcosa, ma senza mai trovarla. Per essere semplicemente cercatori, per evitare questo fardello sociale ed esistenziale, per costruirsi un proprio spazio vitale senza necessariamente intaccare quello degli altri. Tagliare i fili che ci legano agli altri per poter operare le proprie scelte senza dover necessariamente agire in questa trappola della normalità e delle apparenze.
“Alice!” sento chiamare dietro di me. Mi volto. Una mia collega mi abbraccia, capelli perfetti, sorriso inattaccabile, voce squillante. Dentro di me la ringrazio, mi stavo dimenticando della mia apparenza. Altro giorno, stesso gramo ruolo su questo palcoscenico. Passati gli inconvenienti, alzo gli occhi al cielo: uno stormo di uccelli migratori taglia longitudinalmente questo azzurro cristallino. Emetto un sospiro e mi focalizzo nuovamente sulla mia direzione: si torna in scena.

mercoledì 20 luglio 2016

I miei Autori: Hermann Hesse

Hermann Hesse nasce il 2 luglio 1877 a Calw, in Baden-Württemberg, da famiglia pietista di origine sveva e baltica. Verso la fine della sua carriera, nel 1946, fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Ciononostante, si tratta di un autore a cui molto spesso la germanistica di stampo classicista non riconosce piena dignità letteraria, probabilmente in vista del carattere spesso autobiografico e adolescenziale dei suoi testi.

Hesse pone infatti al centro della sua opera la ricerca di sé. Questo è visibile non soltanto in romanzi per così dire spirituali come Siddharta, ma è percepibile in diverse misure in tutta la sua opera: protagonisti delle sue storie sono spesso ragazzini alla ricerca del loro equilibrio e di un sereno stare al mondo. Il superamento delle crisi esistenziali è una parte fondamentale del percorso che viene sviluppato all’interno dell’arco narrativo, tant’è vero che la sua opera più ambiziosa, Das Glasperlenspiel (in italiano, Il giuoco delle perle di vetro) del 1943, viene spesso additata, tra tante altre, come un Bildungsroman (letteralmente, ‘romanzo di formazione’) o una versione alterata di esso.

Il suo stile tocca molto spesso toni lirici e personali che sanno far breccia nel lettore e che sono in grado di comunicare con la sua parte più umana e spirituale. Hesse attinge spesso ad una sorta di versione migliorata di noi stessi, credendo di fatto che ci sia un io migliore all’interno di ognuno di noi che aspetta di schiudersi ed aprirsi al mondo. È in questa poeticità, in particolare contrasto con l’orrore della guerra e con la crudeltà del mondo, che Hesse, a mio avviso, acquista particolare rilievo. All’interminabile e sempre migliorabile ricerca di sé, di un io migliore, infatti, questo autore sa attribuire una funzione cardine in ogni individuo, per ricordarci in fondo che non siamo solamente una persona, una maschera, ma che siamo in continuo divenire, proprio come il fiume in Siddharta. La nostra evoluzione non si può e non si deve arrestare mai, dobbiamo essere, come suggerisce in questo romanzo, dei ‘Suchende’, dei cercatori, instancabili ed orientati verso la nostra evoluzione.

In un’opera successiva, Der Steppenwolf (in italiano, Il lupo della steppa) del 1927, Hesse si dedica ad un protagonista per lui piuttosto atipico: si tratta, infatti, di un uomo di mezza età che ha deciso di suicidarsi il giorno del suo cinquantesimo compleanno. Per quanto i tratti autobiografici siano evidenti anche in questo Harry Haller, le cui iniziali richiamano in modo lampante quelle dell’autore, il lettore si trova tuttavia davanti un protagonista che ha già compiuto un percorso e che ha già raggiunto determinate conclusioni circa la sua vita. Queste conclusioni vengono riassunte in un ‘Traktat’ (generalmente tradotto in italiano come ‘dissertazione’) che tocca in particolar modo il rapporto problematico con la borghesia e la conflittualità presente in Harry: egli, infatti, presenta due personalità in perenne lotta tra di loro, ossia l’uomo e il lupo. Mentre l’uno lo spinge alla civiltà e lo rende di fatto parte integrante della borghesia, dell’ordine civile e del decoro che domina questo strato sociale, l’altro gli impedisce di accettarlo totalmente, lo incoraggia effetivamente a rinnegare questa parte di sé e mette a nudo tutte le ipocrisie che sono parte fondante di una classe sociale orientata al profitto, a dei dubbi valori e ad una vita ordinaria e catalogata. Il romanzo, quindi, nonostante la sua atipicità, rappresenta di fatto la risoluzione di una crisi ed è quindi in linea con la poetica hessiana.
Un frame dal film Steppenwolf di Fred Haines (1974)

Premessa fondamentale del superamento di una crisi in Hesse, come nella vita, è il confronto con l’Altro. Spesso, infatti, questo autore tedesco propone due poli in contrasto tra di loro, la sintesi dei quali genera un senso di serenità e permette al protagonista, in particolar modo, di raggiungere un io migliore, più alto, per quanto brevemente. Questo, cionondimeno, non significa che Hesse abbia scritto unicamente romanzi dal finale positivo ed ottimista, anzi, spesso i finali sono amari o finiscono in tragedia; tuttavia all’interno della narrazione è sempre presente un momento positivo generato precisamente dall'incontro-scontro di due forze opposte: in Der Steppenwolf queste sono racchiuse nel protagonista stesso, ma più tipicamente queste vengono incorporate in due distinti personaggi, come in Demian possono esserlo Emil Sinclair e Max Demian, o in Unterm Rad (in italiano, Sotto la ruota) Hermann Heilner e Hans Giebenrath, o ancora, in modo più lampante, in Narziß und Goldmund (in italiano, Narciso e Boccadoro) i due personaggi eponimi. La polarità tipica di Hesse è quindi premessa fondamentale del percorso verso un io migliore.

Richard Ziegler, 'Hermann Hesse' (1950)
© Richard-Ziegler-Stiftung Calw
Un discorso poi spesso trasversale è quello della psicanalisi, in particolare quella di Carl Gustav Jung. Con la scoperta di questa, infatti, Hesse fu in grado di ascrivere uno spessore scientifico a determinati rapporti all’interno della sua opera. Primo esperimento in questo campo è quello di Demian, del 1919, ma il suo interesse per e studio della psicanalisi non scemerà nemmeno negli ultimi anni in cui è la guerra a prendere il sopravvento. Dalla remota Svizzera, così simbolicamente lontana dalle grida sofferenti dei soldati e dalla devastazione subita e perpetrata dalla Germania nazista, Hesse compirà il suo testamento spirituale e letterario condensando in un Bildungsroman di qualche centinaio di pagine un mondo pacifico improntato alla cultura e all’erudizione chiamato Castalia. È in questa pace e in questo otium litteratum che immaginiamo il vecchio Hermann negli ultimi anni della sua vita – ed è precisamente in questi ultimi anni che il mondo si sdebita del suo contributo alla germanistica e alla letteratura europea e mondiale attribuendogli il premio Nobel per la letteratura.


Ciò che più mi attrae di Hermann Hesse è il suo saper essere leggero, spirituale, a tratti ottimista, ma al contempo anche caustico e critico del mondo moderno. Al suo pacifico sguardo penetrante il mondo non può sottrarsi, per quanto possa celare dietro alle sue tante illusioni delle atrocità inenarrabili. Queste divengono parte della narrazione nell’oeuvre di Hesse, il quale addita in lontananza ‘die kalte Welt der Anderen’ (“il freddo mondo degli Altri”), come lo chiama in Demian, ma al tempo stesso ci accompagna verso un percorso tortuoso e accidentato che ha per meta la ricerca stessa del proprio io e del proprio spazio all’interno di un mondo freddo ed indifferente, se non crudele. Una ricerca – e su questo convengo con il caro Hermann – che è tanto astrusa quanto essenziale al nostro vivere quotidiano.